Colonia, la recensione

Con una prima parte ingenua e provinciale e invece una seconda di genere più appassionante e centrata, Colonia è un prison movie godibile solo a metà

Critico e giornalista cinematografico


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La grande coproduzione tedesco britannica funziona solo per il 50%. Ognuno dei due paesi ci mette una star, la più internazionale che ha. Per la Germania Daniel Bruhl, per il Regno Unito Emma Watson. I due interpretano una coppia di amanti tedeschi nel Cile della transizione da Allende a Pinochet, in una prima parte che non riesce mai a rendere invisibile il suo intento didascalico, così convinta di trovare una sincerità convincente nelle scene più abusate da infastidire. Le proteste, la vita difficile, l’amore che tiene duro mentre il mondo fuori sta cambiando, tutto grida ingenuità provinciale nel credersi al medesimo livello delle grandi ricostruzioni o anche dei film sinceramente locali (vedasi qualsiasi film in costume di Larrain), lasciando emergere ogni difetto, come l’uso spregiudicato della lingua (i due parlano inglese con tutti e tutti in Cile parlano inglese con loro ma ogni tanto infilano delle parole in spagnolo con un fastidioso effetto straniante).

Per fortuna a metà irrompe la trama quella vera, Florian Gallenberger può smetterla di preparare le sue carte e applica il medesimo manicheismo puerile che affossa il dramma al prison movie che il film intende diventare. E lì, di colpo, la storia inizia a funzionare. Cambiando tono, intento e genere, cambiano le regole e ciò che non va nella prima parte tutto d’un tratto gira per il verso giusto, anche il problema della lingua passa in secondo pian nel momento in cui lo spettatore ha altro a cui badare.

Uno dei due amanti (Bruhl) viene catturato dalla polizia e mandato nella Colonia Dignidad, luogo realmente esistito, dominato con pugno di ferro da un predicatore e sulla carta indirizzato alla riconciliazione con Dio. In realtà era un campo di prigionia e di tortura sotto mentite spoglie in cui Emma Watson entrerà di propria spontanea volontà per tirare fuori l’oggetto del suo desiderio.

Colonia nelle pareti anguste, nelle stanze della tortura e nelle camerate anguste si esalta. I suoi bastardissimi aguzzini diventano ragionevoli, perché l’ambiente attorno a loro li rende se non proprio plausibili, almeno coerenti, e anche le esagerazioni di Michael Nyqvist generano carisma invece di ridicolo. Inteso così, cioè come un film di prigionia ed evasione, Colonia funziona molto. Per quanto Bruhl sia forzato a fare lo scemo (letteralmente), sfoggiando troppo le proprie capacità in un film che non le richiederebbe, lo stesso il ritmo e soprattutto le idee dei prigionieri (vero motore del classico prison movie) sono di livello e anche un finale di corsa un po’ tirato via non riesce ad affossarlo.

Dentro le pareti chiuse e il filo spinato della colonia esistono solo esseri umani dalla mentalità chiusa, come sempre rappresentati da un paio di alfieri tra cui spicca la Gisela di Richenda Carey. Non sono tanto infatti le celle o le reti a trasmettere l’angusto senso di oppressione, non siamo in un campo di concentramento, dove i luoghi parlano di infamia e umiliazione, qui è la violenza del plagio mentale a cui si assiste ogni giorno a colpire, la maniera in cui gli altri prigionieri sono deviati dall’idolatria per i carcerieri.

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