Collateral: la recensione
Le nostre impressioni sulla serie poliziesca inglese con Carey Mulligan, Bilie Piper e John Simm distribuita da Netflix
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L'inizio, come detto, è promettente. Un fattorino della pizza viene ucciso a Londra. Quello che potrebbe essere identificato come un caso di cronaca nera si veste di altre letture nel momento in cui si scopre che l'uomo era un musulmano. Nel mondo di Collateral questo significa che un sacco di attori provenienti dai più disparati ambienti vengono tratti al centro della vicenda, che si rivela essere, tramite una serie di collegamenti, molto più grande di quanto si potesse ipotizzare. A sbrogliare la complicata matassa è la detective Kip Glaspie (Carey Mulligan) che deve giostrarsi tra le indagini, le diffidenze di alcune rifugiate-migranti che conoscevano la vittima, un clima di "moderato razzismo" (viene definito così) da parte dei suoi superiori e colleghi dei servizi segreti, ambienti politici che cercano di soffocare ogni possibile scandalo, perfino un collegamento con l'esercito.
Le tematiche non hanno il respiro né la profondità che richiederebbero. I personaggi pronunciano tesi e dichiarazioni d'intenti piuttosto che sinceri e interessanti punti di vista sulla vicenda. Ciò conduce ad un'analisi intorpidita di argomenti che avrebbero bisogno di ben altra trattazione, e che invece qui appaiono come già digeriti e digeribili da un pubblico che già in partenza è schierato con certe tesi e che in conclusione non ne saprà di più. Manca quindi di stimoli, ma anche di caratteri interessanti questo Collateral. Tutto ciò che sapremo sul personaggio di Kip è che una volta aveva una carriera da atleta che ha dovuto abbandonare per un incidente. È un espediente che serve a creare spessore, ma che viene ripetuto così tante volte da far capire che oltre le parole c'è ben poco a sostenere i personaggi.