Collateral: la recensione

Le nostre impressioni sulla serie poliziesca inglese con Carey Mulligan, Bilie Piper e John Simm distribuita da Netflix

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Appare presto chiaro che il senso di Collateral non si esaurisce nella semplice indagine poliziesca, ma aspira ad essere qualcosa di più. C'è un collante fatto di temi, tensioni sociali e internazionali radicate nella contemporaneità a tenere insieme i quattro episodi della serie della BBC, in Italia distribuita su Netflix. Tuttavia, a fronte di simili aspirazioni, la serie ideata e scritta dal drammaturgo David Hare (The Reader, The Hours) non riesce ad opporre un intreccio che sia altrettanto valido, che riesca a sfruttare incisivamente le contraddizioni di cui pure si fa portavoce. Risultato è un prodotto che soffre nella mancanza di sfumature, e che dopo un inizio accattivante scivola in una generale superficialità.

L'inizio, come detto, è promettente. Un fattorino della pizza viene ucciso a Londra. Quello che potrebbe essere identificato come un caso di cronaca nera si veste di altre letture nel momento in cui si scopre che l'uomo era un musulmano. Nel mondo di Collateral questo significa che un sacco di attori provenienti dai più disparati ambienti vengono tratti al centro della vicenda, che si rivela essere, tramite una serie di collegamenti, molto più grande di quanto si potesse ipotizzare. A sbrogliare la complicata matassa è la detective Kip Glaspie (Carey Mulligan) che deve giostrarsi tra le indagini, le diffidenze di alcune rifugiate-migranti che conoscevano la vittima, un clima di "moderato razzismo" (viene definito così) da parte dei suoi superiori e colleghi dei servizi segreti, ambienti politici che cercano di soffocare ogni possibile scandalo, perfino un collegamento con l'esercito.

Collateral, diretto da S.J. Clarkson (Defenders, Jessica Jones) ha l'aspirazione delle piccole storie che tendono ad essere emblematiche. Non si accontenta dell'indagine che dovrebbe incanalarsi attraverso problematiche socioeconomiche, come sarebbe più logico (la storia di genere che serve a parlare d'altro). No, fotografa un'intera nazione alle prese con la crisi dei rifugiati e le pressioni dell'emigrazione dal Medio Oriente sulla scia della catastrofe umanitaria in Siria. E nel far questo, oltre ad un duro attacco all'isolazionismo, anche post-Brexit, racconta la crisi delle istanze dei laburisti, in particolare inquadrati da un politico interpretato da John Simm, ma anche il fallimento delle missioni militari all'estero, e perfino considerazioni sulla morale cristiana. È davvero tanto, considerato anche un intreccio che, in quattro episodi, traccia i profili di una decina e più di personaggi tutti legati tra di loro da coincidenze esagerate. I cattivi sono cattivissimi, i buoni sono mossi da una generica empatia.

Le tematiche non hanno il respiro né la profondità che richiederebbero. I personaggi pronunciano tesi e dichiarazioni d'intenti piuttosto che sinceri e interessanti punti di vista sulla vicenda. Ciò conduce ad un'analisi intorpidita di argomenti che avrebbero bisogno di ben altra trattazione, e che invece qui appaiono come già digeriti e digeribili da un pubblico che già in partenza è schierato con certe tesi e che in conclusione non ne saprà di più. Manca quindi di stimoli, ma anche di caratteri interessanti questo Collateral. Tutto ciò che sapremo sul personaggio di Kip è che una volta aveva una carriera da atleta che ha dovuto abbandonare per un incidente. È un espediente che serve a creare spessore, ma che viene ripetuto così tante volte da far capire che oltre le parole c'è ben poco a sostenere i personaggi.

Nel quadro generale spicca in positivo la protagonista Carey Mulligan, che riesce a dare presenza al ruolo e, di conseguenza, spessore alla storia. Interessanti alcune trovate, come l'idea di accompagnare l'inizio di ogni puntata con una musica "leggera" e dissonante rispetto alle ambientazioni. Un po' poco, considerati gli obiettivi.

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