Collateral

Chi definirei il più grande regista vivente? Per rispondere correttamente a questa domanda, bisognerebbe prima porre adeguatamente le basi della questione, definendo bene i parametri della “classifica”.

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Ci sono registi che hanno fatto capolavori immensi, ma che da anni non riescono a sfornare prodotti degni del loro passato. Qualche nome? Brian de Palma, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Michael Cimino e, se vogliamo evitare di continuare nel festival del cinema americano anni settanta, mettiamoci anche Nanni Moretti e John Woo.
Insomma, per figurare nei primi posti di questa (personalissima) classifica, bisogna non solo avere un passato di tutto rispetto, ma anche un presente all’altezza.

Fino al pessimo biopic Ali, Michael Mann avrebbe vinto il mio personalissimo Oscar in questa categoria. Facciamo un breve riepilogo per i più distratti. Strade violente, nel 1981, faceva capire che eravamo di fronte ad un talento notevole, che tra l’altro recuperava il desaparecido James Caan. Manhunter, nonostante qualche eccesso di leziosità , può competere come miglior adattamento di sempre di un romanzo di Thomas Harris (considerando che c’è anche Il silenzio degli innocenti, non è poco). L’ultimo dei Mohicani dimostrava che si può realizzare una grande avventura senza cadere nel ridicolo.
Infine, Heat e Insider rimangono due delle gemme più preziose dei (non felicissimi) anni novanta, una prova di maturità degna di un genio.
Certo, il pasticcio di Ali lasciava profondamente delusi, ma a chi non capita un passo falso?

Ecco perché ero molto curioso di vedere come si sarebbe comportato Mann di fronte ad un prodotto su commissione, con la presenza ingombrante di una star come Tom Cruise.
Purtroppo, sebbene Collateral sia un notevole passo avanti rispetto alla sua ultima fatica, il motore ogni tanto gira a vuoto e alla fine cede di schianto con una fumata spaventosa.

Peccato, perché l’inizio era da favola. Giusto per capire subito che non siamo di fronte ad una pellicola per famiglie, ecco che i loghi delle case di produzione sono virati in grigio (probabilmente perché in nero non si sarebbe visto nulla). D’altronde, siamo trasportati in un mondo (se aveste dei dubbi, il nostro) dove prevale l’indifferenza, si muore in un battito di ciglia e tutto ruota intorno al denaro (anche per quanto riguarda i personaggi positivi). Il tutto grazie ad una Los Angeles splendidamente fotografata e ad alcuni dialoghi serratissimi.

Poi, però, si inizia ad avvertire un certo calo. Dovuto in larga parte alla sceneggiatura. Non è difficile capire quali siano i riferimenti di Stuart Beattie (La maledizione della prima luna è l’unico lavoro che svetta nel suo palmares). Un 50% di Hitchcock (un uomo comune che si ritrova protagonista di una situazione straordinaria), un 30% di Fuori orario e un pizzico di Seven.
Il problema è che alcune sorprese sono abbastanza prevedibili (i segreti del tassista, le tappe del cattivo), mentre altre svolte invece sono assolutamente improbabili (eufemismo) e servono solo per mantenere artificialmente alta la tensione. Per non parlare del piano del protagonista, che alla fine (nonostante sia facile trascurarlo) risulta senza alcun senso logico e indegno anche di un dilettante.

E alcuni difetti di script (ma probabilmente anche alcune richieste della star) non hanno certo reso un gran servizio a Tom Cruise, qui in una buona prova delle sue capacità , ma sicuramente troppo filosofeggiante e gigione per non far alzare il sopracciglio più volte. Ma chi altri riuscirebbe a far guadagnare 100 milioni di dollari nei soli Stati Uniti ad una pellicola del genere? Notevole invece la performance di Jamie Foxx, che riesce a costruire un personaggio agli antipodi di quello che interpretava in Ogni maledetta domenica.

Il problema grosso è che, se qualche difetto si perdona facilmente per un’ora e mezza, l’ultima parte del film è assolutamente catastrofica. Ci troviamo di fronte infatti ad un finale assolutamente fantascientifico ed eccessivo, con momenti da horror di serie Z. Certo, Michael Mann riesce a girare discretamente anche queste parti e continua a mostrare il suo amore verso il cinema di Jean-Pierre Melville (ma purtroppo qui la coppia non funziona bene come in Heat), ma non può compiere miracoli.
Tuttavia, viene da pensare quale orrendo casino avrebbe combinato un altro regista al suo posto, che riesce ad offrire un prodotto complessivo rispettabilissimo.
Solo per questo, il titolo di maggiore regista vivente gli spetterebbe di diritto. Ma se invece, giustamente, ci atteniamo ai risultati, non ho dubbi: la mia palma va a Hayao Miyazaki.

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