Colette, la recensione
La vita di Colette raccontata con correttezza ma senza nessuna partecipazione
Colette ha un po’ di tutto questo in piccole dosi e, per la prima volta, mostra Keira Knightley sia subire che agire. Colette era una ghostwriter di romanzi di grandissimo successo che in realtà venivano firmati dal marito. Le storie del personaggio da lei inventato, Claudine, causarano una frenesia e un successo potentissimi nella Francia di inizio ‘900, e lei ad un certo punto trovò il coraggio non solo di affermare la propria omosessualità ma anche di rivendicare il riconoscimento per il proprio
Prima maltrattata (ma anche amata), sfruttata (ma anche benedetta dal successo) e soprattutto marginalizzata, Colette lungo il film che ne racconta gli anni cruciali diventa conscia del proprio potere.
È una storia perfetta per questi anni perché mette in scena il conflitto tra il maltrattamento e la presa di coscienza, la repressione sessuale e l’esplosione del desiderio di lottare per affermare i propri diritti, la propria sessualità e la propria centralità.
Purtroppo Colette è condotto come una nave lenta, da crociera, che non è interessata a deviazioni avventurose ma si attiene al piano. Tutto da contemplare, Colette non ha nemmeno idee visive che vadano più in là della solita tenue e precisa ricostruzione d’epoca. Non vuole raccontare davvero cosa abbia dentro la protagonista o quali siano le sue spinte, con soluzioni audaci oppure espedienti narrativi evidenti. Preferisce attenersi al piano del cinema biografico. Corretto sotto ogni punto di vista, dotato di ampi margini per gli attori e i loro assoli ma alla fine proprio per questo così ecumenico da risultare innocuo, prevedibile e a tesi.
Quando chi dirige non è in grado di mostrare assieme alla storia anche cosa egli stesso provi nel sentirla quello che rimane è solo una storia molto chiara e priva di buchi.