L’oggetto che meglio racconta cosa sia
Codice Criminale è una monovolume familiare da 7 posti, un macchinone pesante e dal design ciccione che per tutto il film è spinta alle massime velocità, usata per inseguimenti e continui fuori strada sul prato come fosse un Hummer. È il mezzo con cui la famiglia Cutler spesso si muove, con cui insegna al più piccolo del clan a correre in auto (lo fanno stando tutti insieme in macchina, inseguendo un coniglio nei grandi prati irlandesi in una sequenza d’apertura formidabile per rischio, divertimento e senso della famiglia) e con cui Chad, il rampollo o “la leggenda” come lo chiama il padre, scappa dalla polizia. Un mezzo inadeguato e familiare adattato alla grande ad imprese pericolose e criminali.
I Cutler sono ladri per genìa, è il vanto di famiglia e lo sanno tutti, è come una regola non scritta: tutti sanno che sono ladri, loro continuano a fare i ladri ma non devono farsi beccare dalla polizia. Quella con le forze dell’ordine è una specie di faida, una rivalità che non conosce pietà (nemmeno davanti alla sparizione di due figli, nel momento in cui dietro le barricate si potrebbe scorgere una comune umanità, questa diversità è messa da parte), una che si acuisce quando il padre di famiglia (un fenomenale Brendan Gleeson finalmente sporco, lercio e bastardo senza redenzione con un anello incredibile) commissiona come al solito al figlio un furto che si scoprirà essere in una casa di un ufficiale della polizia. L’evento cambia tutto e nonostante Chad l’abbia fatta franca come Ulisse (si nasconde sotto le vacche), qualcosa si è rotto.
Il punto di
Codice Criminale è infatti come in questa grande faida familiare tra i Cutler e la polizia un ingranaggio sia fuori posto.
Michael Fassbender è perfetto nel ruolo di questa leggenda del crimine in tuta con il cuore d’oro che sempre meno vuole vedere il figlio preso anch’egli in questioni di crimine, lo vorrebbe a scuola nonostante il nonno e il resto della famiglia spingano per l’anarchia e la vita criminale: “
La prigione è la medicina di Dio, ti insegna le cose importanti” è la morale che il nonno passa al nipote.
Solo che la famiglia non è facile da mollare, la polizia non è facile da eludere e tutti sembrano tramare contro di lui.
Adam Smith ha una mano fermissima, sa correre quando serve, dirige bene la tensione, il rischio e gli inseguimenti di cui è chiaramente appassionato tanto quanto i personaggi, ma ha anche il cuore che serve per un dialogo a porte chiuse, per due battute in cima ad un albero o uno sguardo di sfida tra i parenti. Questo del resto è un film di uomini, quindi non ce ne sono troppi di dialoghi, sono più sguardi, campi e controcampi in cui ci si fissa con la serietà e la determinazione di un adulto pur avendo 10 anni e così facendo si dicono cose serissime.
Alla fine della fiera però ciò che veramente emerge da questo quadro con colori poco saturi è la meschinità umana in un mondo, quello delle faide, che non sembra nemmeno troppo il nostro. Per quanto ami mettere molta ironia nel film (funzionale a tratti ma non quando indugia nella coolness dei personaggi, caratteristica che stona in un film così poco compiaciuto e così commiserevole),
Smith ha la capacità di dare una profondità quasi mitologica alle rivalità, rendendole contrapposizioni ancestrali, quasi millenarie. Una meschinità che sembra affondare chissà dove nel passato e che ovviamente ha il mirabile risultato di rendere il cuore e il desiderio di fuga del protagonista ancora più romantico.