Coco, la recensione

Con una prima parte disneyana e una seconda più pixariana, Coco sembra un film ponte, solo che non collega vivi e morti, collega passato e presente

Critico e giornalista cinematografico


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Miguel, stai confondendo i film con la realtà!” è quel che viene rimproverato al protagonista di Coco, per farlo desistere dal suo progetto di diventare musicista come il suo idolo Ernesto De La Cruz, chitarrista-attore degli anni ‘40 morto da tempo. I personaggi di Coco però non sanno che nei cartoni Pixar i film e ogni forma di video sono la verità più ancora della realtà!

Il problema di Miguel è che la sua famiglia ha da tempo rinnegato ogni forma di musica per fare scarpe, qualsiasi nota è bandita a causa di un trauma occorso alla bisnonna Coco (vecchissima ma ancora viva). Proprio Miguel scopre che il padre della sua ava era nientemeno che il suo idolo: Ernesto De La Cruz.

La Pixar aveva cavalcato la moda della cucina quando questa era appena scoppiata con Ratatouille e ora arriva un filo in ritardo su quella dei talent show. Molto della prima parte di Coco infatti si gioca sull’ansia di Miguel di mostrare davanti ad un pubblico il suo talento. E la maniera in cui si parla del talento, del sogno e del grande domani artistico, è la stessa con la quale la televisione confeziona le sue storie di successo nei talent show. Dunque per mettere in scena un classico archetipo disneyano, ovvero un ragazzo che va contro le tradizioni della sua famiglia non rassegnandosi ad essere quel che gli viene detto di essere, la Pixar (proprio nel suo film più disneyano!) decide di farlo appoggiandosi ad una mitologia tutta televisiva. E se non è necessariamente un male cavalcare la moda dei talent, lo è come il film indossi male una struttura narrativa che non è la solita dei film Pixar ma, per l'appunto, una più vicina alle produzioni Disney.

È così che nel giorno dei morti Miguel ruberà la chitarra dalla tomba di Ernesto De La Cruz, finendo catapultato nel regno dei morti. Lì inizia un secondo film, molto più pixariano, meno convenzionale per tanti versi, strano, sbilanciato e abbastanza audace (la maniera in cui viene rappresentata la famiglia non è proprio una culla amorevole, più un insieme di riottosi), in cui lo stesso studio che ha portato al cinema la storia di un topo in cucina o di un uomo anziano, pieno di acciacchi coinvolto in una grande avventura d’azione, tenta di raccontare la morte. Si badi bene, non il regno dei morti (già visto molte volte, anche recentemente in Il Libro della Vita), ma proprio l’atto del morire, non esserci più e scomparire. Certo è una visione conciliante con i defunti che rimangono vicino ai vivi, e li vanno a trovare, ma come già accaduto in Inside Out, anche qui il film ha il suo momento più terribile nel concetto di scomparsa assoluta, unica possibile metafora di quel che è davvero per noi la morte.

Per farlo imbastisce una storia ovviamente avventurosa fatta di regni lontani, parenti remoti (e morti) da trovare in tempo, di amici scheletri e soprattutto di rivelazioni a mezzo video. Come già scritto infatti, anche qui l’unica maniera per scoprire realmente le proprie origini o per svelare un inganno, la vera natura di un personaggio o ancora un piano segreto è vederlo tramite il video. Per la Pixar (è ormai evidente) solo attraverso la proiezione e gli artifici della memoria perpetua impressa su celluloide, digitale o nastro si può arrivare alla verità. Addirittura qui Miguel scoprirà la vera identità di un personaggio vedendolo comportarsi come in un film che conosce a memoria: nella realtà sarebbe stato ingannato da quelle azioni, ma i film a differenza della realtà non sono ambigui, e quindi ha imparato che quei gesti preludono ad altro. Solo il cinema aiuta a vivere, solo le immagini riprese dicono la verità. L’unica vera forma di memoria possibile è quella del video.

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