Cobra Kai (stagione 4), la recensione
Il contrasto è sempre quello tra i valori di ieri e quelli di oggi misurati su Johnny Lawrence ma in più c'è da chiedersi fino a quando si possa fare nostalgia
C’è davvero spazio per ancora altra nostalgia arrivati alla quarta stagione? Tecnicamente sì, perché ci sono ancora personaggi storici da tirare fuori, come Terry Silver, il ricco commilitone di guerra di sensei Kreese interpretato da Thomas Ian Griffith, oggi un ricco immerso in una realtà fatta di apparenza, cocktail e raffinatezze che mal si accoppiano con il suo passato in Vietnam, e infatti sotto sotto ancora pronto a farsi tirare dentro una competizione idiota dal suo ex amico. Ancora pronto a mettere i suoi soldi al servizio del maltrattamento dei ragazzini e del fomento del bullismo. E sempre tecnicamente c'è ancora Hilary Swank dal quarto film da riesumare.
Ma al di là della risposta tecnica, c’è davvero spazio e ha ancora senso fare nostalgia con una serie alla quarta stagione? La nostalgia per qualcosa dopo un po’ si esaurisce o è un pozzo senza fondo a cui attingere? Cobra Kai risponde che è un pozzo senza fondo. Ancora gli spezzoni dei tre film della serie fanno il loro lavoro, ancora ci sono questioni in sospeso ancora c’è una dialettica con la morale di allora e quella di oggi da mettere in scena.
Che poi è quello di cui parla la serie, non tanto la vendetta nel presente per qualcosa accaduto nel passato ma lo scontro tra come la si pensava negli anni ‘80 e come la si pensa oggi, tutto misurato addosso a Johnny Lawrence, da subito un residuato degli anni ‘80 che lungo 4 stagioni in modi diversi si piega al vivere moderno, come fosse Captain America. Rifiuta molti degli aspetti meno virili del contemporaneo ma sotto sotto si adegua perché, come vedremo, Cobra Kai è una serie che racconta come tutto debba cambiare perché nulla cambi. E anche il tema portante di questa stagione, il contrasto tra la filosofia di attacco del Cobra Kai e quella di difesa del Miyagi-Do (la risposta finale sarà, indovinate un po’, che serve un po’ di entrambe), è su Johnny Lawrence prima che su Daniel LaRusso, è sempre lui il personaggio con l’arco narrativo più serio.
La materia del contendere sono sempre i ragazzi e le loro anime, cosa che se non altro in certi punti la serie riconosce e usa per fini umoristici.
Tuttavia è impossibile nascondere come questa sia sempre più una serie da boomer che vive della fiera ostentazione dell’opposto dei valori contemporanei. È la risacca della virilità vecchio stampo vissuta con ragionevolezza. Vengono infatti presi in giro i vecchi costumi nei loro aspetti più grossolani (e sempre con bonarietà) con l’obiettivo di riaffermarli, scherzare sugli aspetti pittoreschi per riaffermarne quelli strutturali del maschio classico (e anzi l’idea di femminismo della serie è che quei valori del maschio classico possono essere allargati anche al mondo delle donne). Ad essere aggiunta è come al solito un’altra generazione ancora, il figlio più piccolo di LaRusso, e sempre con lo stesso meccanismo: la progenie di una parte che si arruola o rischia di arruolarsi nelle fila dell’altra. Come se fosse una storia di faide italiane.
Per fortuna ad un certo punto come un’apparizione arriva Mattea Greene, nome non proprio noto della sceneggiatura, che scrive da sé tutto il sesto episodio. Quella puntata è tutto un altro passo, ha tutta un’altra verve umoristica, prende in giro con gusto i personaggi e le loro assurdità, trova il ridicolo della serie e non ci indugia, anzi riesce a svicolarlo riconoscendolo. Fosse sempre così Cobra Kai sarebbe proprio un altro mondo. Perché invece subito dopo tornano le psicologie senza senso prese sul serio, come quella di Mohawk, un personaggio che sembra trarre la sua personalità dal suo corpo e non viceversa, che si fomenta così facilmente da farsi un tatuaggio gigantesco del dojo in cui si allena da pochi mesi (dopo averne cambiati 3!) e poi quando per dispetto gli tagliano i capelli è di colpo preda del male di vivere.
Certo poi anche questa quarta stagione si lascia seguire, torna il torneo (ed è apprezzabile il ridicolo con cui è dipinto il consiglio di amministrazione) e quella dinamica salva un po’ tutto dall’aspetto da soap opera. Perché se tutta la serialità moderna vive del segreto di Pulcinella di aver capito come integrare i meccanismi vincenti delle soap senza la sciatteria delle soap, Cobra Kai non riesce ad evitare la seconda cosa. Le luci sparate, chiarissime e naturalistiche, la recitazione enfatica e poi anche proprio la firma di qualsiasi soap (il momento in cui finito il dialogo di una scena viene inquadrato un personaggio in primo piano mentre fa l’espressione di “Ah cavolo e adeso che farò!?” prima dello stacco alla scena successiva) sono scelte precise, reiterate e confermate ad ogni episodio. La povertà della produzione è inspiegabile per gli standard moderni e sarebbe coerente se poi la serie facesse la parodia della serialità (ma non è così).
Ma tant’è. Non è il Cobra Kai che vorremmo fino in fondo ma è il Cobra Kai che forse ci meritiamo.