Cobra Kai, la recensione della seconda stagione

Virata bruscamente su teen soap Cobra Kai si barcamena cercando di rimanere fedele a se stessa e al tempo stesso normalizzarsi

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Dopo la prima stagione era necessario scegliere.
Replicare quel tono lì, cioè continuare con una forma molto particolare di nostalgia, molto consapevole e intimamente innovativa (nel senso stretto: innovativa rispetto alle dinamiche originali dei personaggi); oppure aderire ad uno dei grandi generi della serialità, diventare cioè meno originale e più familiare per il pubblico? Cobra Kai ha scelto la seconda, ha marginalizzato i temi dei film originali, ha confinato citazioni, cammei e richiami ad alcuni minuti di qualche episodio e ha scelto di diventare una specie di teen soap, storielle d’amore adolescenziali a rincorrersi intorno a due dojo rivali.
L’amore per qualcuno che aderisce all’altra scuola, un ex nel passato, equivoci a rotta di collo e gelosia, io amo te, tu amavi lui, io penso ancora a lei...

Daniel LaRusso e Johnny Lawrence scendono di un gradino e la loro importanza diventa pari a quella dei ragazzi che lungo le 10 puntate da meno di 30 minuti messe online su YouTube a pagamento si dividono equamente in seguaci del Cobra Kai e seguaci del neo-rinato Miyagi-Do. Lato oscuro e lato chiaro della forza solo che, per fortuna, non è possibile capire quale dojo appartenga a quale lato. Cobra Kai non dimentica da dove viene e mantiene la sua caratteristica cruciale: raccontare il conflitto da entrambi i lati della medaglia. E nonostante non ci possa più essere la sorpresa della prima stagione, continua ad essere sorprendente vedere ogni volta questa serie distribuire equamente i torti e bastonare tanto i bulli quanto i corretti.

Gli schieramenti infatti sono chiari, sappiamo bene per chi di solito parteggerebbe una serie qualsiasi. Qui invece ad essere pedinati sono “gli altri”, i cattivi, per capire cosa ci sia dietro al loro atteggiamento, per dare umanità ai bulli e vedere che dubbi hanno, che questioni si pongono e che lati positivi possiedono. Ridono anche loro, si divertono anche loro, sono teneri anche loro e in maniera onesta. “Badass sì ma con onore” è il nuovo mantra di Johnny Lawrence che non vuole rinunciare ad essere chi è ma non intende barare per questo, non intende essere come voleva il suo sensei John Kreese, qui tornato come si vedeva nell’ultima scena della prima stagione e in continuo conflitto con lui.

E al netto di tutti i cambi di genere e di tono (verso la fine ci si può anche ritrovare a chiedersi cosa si stia guardando, tanto certe scene sarebbero state impensabili nella prima stagione) rimane che con questa sua messa in scena semplice, con questa sua sicurezza e apparente mancanza di rischi Cobra Kai ti truffa, ti fa abbassare le difese ti fa credere di conoscerlo, di sapere già cosa accadrà e invece ingarbuglia le acque ogni volta, costringendoti a farti delle domande, costringendoti a rivedere la frettolosità dei soliti giudizi dati per abitudine.
Chi sono i buoni? I bulli del Cobra Kai indecisi su chi essere, sfigati con uno scopo, finalmente parte di un gruppo dotato di un obiettivo e di qualcosa che gli dia fiducia o i bravi ragazzi del Miyagi-Do, che parlano per frasi corrette che dicono sempre la cosa giusta anche quando non ha molto senso, che ripetono i buoni insegnamenti ma poi vogliono schiacciare il nemico non diversamente dagli altri?

E ad appassionare non è tanto il fatto che abbastanza apertamente questa divisione tra esseri umani rispecchi la basilare divisione politica americana, quella tra democratici e repubblicani, quanto il fatto che Cobra Kai li voglia ritrarre come parti in lotta eterna. Non c'è possibile tregua tra loro perché gli eventi complottano contro la pace, gli intrecci e le coincidenze riaccendono i fuochi ogni volta, basta pochissimo a rompere qualsiasi quiete se pensi di appartenere a parti opposte della barricata. Cobra Kai diventa ora la messa in scena del concetto stesso di conflitto in una teen soap.

Su tutti per fortuna continua a regnare Johnny Lawrence, capo-bullo privo di certezze e pronto a cambiare al contrario di LaRusso, tutto certezza di essere nel giusto e buoni principi, con i suoi dogmi e buoni insegnamenti che usa per imporre la propria volontà. Lui anche nei momenti più alleggeriti (alle prese con le app di dating) rimane un personaggio vero, di quelli che hanno i fantasmi nel passato e lottano ogni giorno nel presente.

Purtroppo il finale della stagione lascia intuire un futuro gramo, una terza stagione ancora più diversa e “riaggiustata” con un nemico più chiaro e indiscutibile e probabilmente un’alleanza tra quelle fazioni che fino ad ora si sono scontrate.
Rimane il godimento di quella strana goffagine nel fare arti marziali, di questa produzione da poco con look da webserie che però è scritta meglio di molti prodotti professionali. Rimane l’autoironia registica consapevole dei mezzi limitati ma vogliosa di giocare tutte le carte possibili di quei tre film originali (sia nei cammei, che negli oggetti, che nell’abbigliamento). Così alla fine un momento potenzialmente ridicolo riesce a non esserlo, il pianosequenza della grande rissa scolastica è così conscio di essere imperfetto ma così divertito dall’essere quel che è, da risultare un piccolo capolavoro di cinema a basso budget, appassionato e consapevole dei propri limiti.

Fatta così com’è è insomma difficile non voler bene a Cobra Kai. Troppo giusto è il suo atteggiamento, troppo buona è la doppia prospettiva che alla fine si passa sopra anche a questa trasformazione in teen soap.

Continua a leggere su BadTaste