C'mon C'mon, la recensione | Roma 16

In un bianco e nero la cui ragione d'esistere è da capire C'mon C'mon racconta il rapporto tra un adulto e un bambino bisognosi dell'altro

Critico e giornalista cinematografico


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C'mon C'mon, la recensione | Roma 16

Poche cose sono più pretestuose del bianco e nero di C’mon C’mon. Forse solo la maniera in cui Mike Mills inquadra Chicago prima e New York poi, due metropoli in cui si svolge la vita di uno zio e un nipote. Il primo è un adulto che realizza inchieste audio, raccoglie voce di giovani sul futuro, il secondo un bambino che gli viene affidato temporaneamente perché il padre è molto malato e la madre deve accudirlo. I due si conoscono ma lo zio non ha pratica di bambini, di fatto il loro rapporto deve costruirsi da zero in quel contesto strano ed entrambi hanno bisogno dell’altro. Come mai questa storia sia filmata in bianco e nero rimane un mistero anche a film finito. Almeno la claustrofobica città di palazzoni schiacciati sui personaggi ha un senso quando, nella terza parte, i due vanno a New Orleans, e allora come per le 4 stagioni, c’è una rinascita in un contesto più arioso in aperto contrasto con i primi. O almeno in teoria. Perché tutto questo film funziona molto più in teoria che nella pratica.

L’obiettivo di C’mon C’mon non è mai quello di colpire con la scrittura, non è per esempio rigoroso e quasi “italiano”, nel senso migliore del termine, come un altro film simile cioè Daddy Longlegs dei fratelli Safdie; semmai vuole colpire con la recitazione intensa di Joaquin Phoenix e Woody Norman, estratta da piccoli espedienti di provato funzionamento (le registrazioni che il bambino e che lo zio sente a fine film, il momento in cui si perde). Tanto poco è un film di scrittura che per creare interesse usa il più bieco dei trucchi, fa accadere eventi senza darci le spiegazioni (come e perché se ne vada la madre, quanto stia male il padre) lasciando sempre intendere che queste stiano per arrivare. E nei passaggi più ambigui inserisce un’amica dello zio, psicologa, che interpreta le azioni del bambino, così che non ci sbagliamo. Tutti espedienti da cinema americano mainstream qui riciclati con la pretesa monocromatica di essere invece cinema più sofisticato, alto, autoriale.

Mike Mills non è niente dello statuto che vorrebbe che C’mon C’mon gli donasse. In un trionfo di autoanalisi, musica classica di sottofondo, interviste ai giovani americani che parlano di futuro che fanno da spalla alla storia e poi il classico piccolo problema nel terzo atto, C’mon C’mon riesce a dimostrare solo di non avere dei sentimenti verso i suoi personaggi. Non si avverte mai della tenerezza, della vicinanza, dell’affetto o anche solo un po’ di partecipazione alle loro peripezie. Ancora peggio l’impressione è che questi sentimenti, ammesso che li abbia, non sappia proprio manifestarli e quindi tenti di farlo come ha visto fare altrove. L’imitazione di un sentimento verso i personaggi. Nel migliore dei casi può generare una reazione pavloviana (bianco e nero + musica classica + più bambino=tenerezza), ma di certo è lontanissimo dal potere dire qualcosa di significativo al pubblico.

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