Cloro, la recensione

Come il più classico degli esordi d'autore italiani Cloro ha ottime idee ma pecca di eccessiva fiducia in esse e perde per strada la forza della sua storia

Critico e giornalista cinematografico


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L'esordio di Lamberto Sanfelice era uno dei film della pattuglia italiana all'ultimo festival di Berlino (sezione Generation, quella del cinema per e su i ragazzi) ma prima era passato anche al Sundance e del resto dell'esordio italiano ha tutti caratteri tipici.

La storia è quella di Jennifer e del fratello, costretti a lasciare Ostia per i monti dell'Abruzzo, zone desolate e per loro totalmente aliene (il fratello piccolo non sa nemmeno cosa sia uno skilift), nelle quali devono vivere grazie alla bontà di uno zio che ha deciso di ospitare loro e il padre caduto in depressione totale dopo aver perso il lavoro e la moglie. Mentre il fratello piccolo viene inserito nella scuola locale, Jennifer (sebbene minorenne) trova un lavoro come donna delle pulizie in un resort ma ha in testa solo il nuoto sincronizzato che ha abbandonato ad Ostia. Nonostante niente vada bene continua ad allenarsi di nascosto nella piscina del resort contando di riuscire a tornare per i campionati assoluti.

Al centro di tutto c'è uno sradicamento che non vediamo, il film inizia già tra i monti, Ostia e il suo clima diverso sono solo un ricordo rievocato a parole, lì dove nessuno si trova bene, non i due fratelli, nè il padre che non fa che crogiolare nella propria apatia. Tutto quel che di interessante Cloro ha da dire lo fa attraverso il nuoto sincronizzato. C'è un bellissimo inizio in cui una nuotata in una piscina con fondale a specchio ripresa a filo di piombo rivela che non c'è nessun fondale a specchio, sono effettivamente due nuotatrici una di fronte all'altra che fanno una vasca coordinatissime, e così il film procede tra riprese subacquee e improvvisi stacchi in superficie.
Non ci sono dubbi che l'idea in sè sia ottima e Sanfelice sappia anche trovare nelle immagini del nuoto sincronizzato i momenti più sorprendenti, ma è anche evidente che la fiducia del regista in questa chiave di lettura sia eccessiva.

Tutto ciò che non avviene in piscina è ripreso con pochi fronzoli ed inquadrature essenziali, i momenti di vita difficile (Jennifer fa la spesa, cucina, bada al fratello e riprende il padre nei suoi vagabondaggi) come i rari attimi di allegria. Cloro sembra girato seguendo il manuale del buon cinema d'autore, adempie a tutti i passaggi giusti, applica lo stile e l'immaginario di comprovato successo (gli opposti, i doppi, il paesaggio e il personaggio, lo straniero salvifico, la bontà altrui, l'attività che parla del personaggio e l'impossibilità per il personaggio di risolvere la sua situazione), per cogliere non tanto una storia vera e propria quanto un momento di una storia più grande. Non vediamo nè ciò che ha portato a questa situazione, nè come finirà, non sono gli eventi in sè per sè ad interessare Cloro ma come Jennifer cerchi di battersi fuori e dentro di sè per riuscire a tenersi stretta quella parte della propria vita che le serve per affermare la propria identità (il nuoto sincronizzato). Le intenzioni migliori che tuttavia non si tramutano in un film alla loro altezza.
Solo per un attimo, nella chiusura, sembra di intravedere le potenzialità di questa storia in uno stacco rapidissimo tra Ostia e l'Abruzzo, una piccola esagerazione di montaggio che proprio per la sua scarsa convenzionalità colpisce più di tutto il resto del film.

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