Clifford: il grande cane rosso, la recensione
Il modello è quello dei film Disney in live action degli anni '60 e '70, quelli con animali magici protetti dai bambini, ma lo sforzo è davvero ai minimi
Al suo cuore è un film molto classico Clifford: il grande cane rosso, che si posiziona nella grande tradizione dei film con animali magici, in cui dei bambini proteggono creature che sarebbero potenti ma non sono consce del proprio potere, dalla brutalità della società, del mondo degli adulti e di chi li vuole mettere al servizio del proprio guadagno. C’è un’infinità di cinema Disney in live action girato tra gli anni ‘60 e ‘70 sul tema, ma non solo, è anche l’impianto base di E.T. di Spielberg.
Su queste idee Walt Becker fa il lavoro più pigro possibile, a partire da un uso blando della città come scenario, nonostante si parli abbastanza di quartieri, botteghe, identità di quartiere e amici di quartiere (siamo a metà tra la parte ricca di New York all’inizio ma ci trasferiamo poi ad Harlem per l’avventura).
Viene tutto dalla scelta penalizzante di non lavorare per niente sulla forma ma, come era prevedibile, sulla tenerezza del grande cane. È per questo più povero di quel che potrebbe Clifford: Il grande cane rosso e soprattutto, cosa ancora meno perdonabile, è scelto male il cast. A partire dallo zio sfaccendato di Jack Whitehall, molto fuori parte, fino alla madre responsabile e al tempo stesso irresponsabile di Sienna Guillory. In un film che flirta con l’estetica dei cartoni sbagliare a disegnare i personaggi è imperdonabile, riescono meno le gag, funziona meno l’impianto e anche la maniera in cui i caratteri sono giustamente estremizzati finisce per stonare invece che divertire.
Sono tutti dettagli di sciatteria che poi si rispecchiano in snodi narrativi abbozzati e fiacchi. In questo modo anche le parti più importanti, come la grande corsa finale per salvare tutto, il grande sentimento tra bambina e cane e ancora la tensione per la risoluzione o l’umorismo di condimento, sono ai minimi storici.