Clickbait: la recensione
Clickbait ha dalla sua la forza della semplicità e della godibilità, ma non riesce a dire davvero qualcosa sui suoi temi
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La premessa di Clickbait è quella dell'episodio più stereotipato di Black Mirror che vi potrebbe venire in mente. C'è un uomo che è stato rapito e che appare in rete con un cartello che dice "quando questo video raggiungerà 5 milioni di visualizzazioni, io morirò". Non è poi così diverso dal primo, storico episodio di Black Mirror (quello della scena del maiale, per capirci). Sarebbe l'occasione per raccontare gli estremi del voyeurismo digitale, la tendenza del pubblico a voler affondare i denti e lo sguardo nel peggio che la rete ha da offrire. Ma in realtà questa miniserie di Netflix non ha la forza per raccontare bene quei temi e, va detto, alla fine non le interessa nemmeno troppo.
Clickbait ha dalla sua la forza della semplicità e della godibilità. La serie è molto scorrevole, la struttura da thriller è ben congegnata, la visione delle puntate si sussegue senza problemi o fatica. Insomma, è tutto sufficientemente interessante da tenere legati allo svolgimento. Che nel corso della narrazione sfrutterà come fionda verso gli sviluppi successivi tutta una serie di rivelazioni sconcertanti sui personaggi che si accumulano e ci svelano qualcosa di più su chi erano prima della tragedia. Clickbait vorrebbe parlare di identità digitali, catfishing, tradimenti, manipolazione, accanimento dei media, ma inserisce tutto in una cornice da thriller poliziesco senza troppe pretese. Di quelli che immaginano un canovaccio di base abbastanza interessante senza curarsi di lavorare sulla cornice e sui personaggi.
Il finale comunque risponde a tutte le domande e, per quanto sia abbastanza assurdo, non raggiunge le vette di follia del recente Dietro i suoi occhi.