Civil War, la recensione

Il miglior film di guerra dell'anno, Civil War, è anche quello che in maniera più diretta vuole parlare di cosa sta accadendo in America

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Civil War, il film di Alex Garland in uscita al cinema il 18 aprile

Se per avere Civil War è stato necessario passare per Annientamento, beh ne è valsa la pena! Questo viaggio in un mondo pericoloso, dritti verso un obiettivo, incerti se ci si arriverà o no vivi, un viaggio lungo il quale guardare il mondo e capirlo più che vivere avventure, è chiaramente la versione migliore di quel film molto ambizioso ma anche meno riuscito. Invece di lavorare di fantascienza ora Alex Garland lavora di fantapolitica, assottiglia la metafora e si mette a lato dell’attualità, immaginando un futuro vicinissimo, un presidente probabile e divisivo (con cravatta vistosa e l’odio per i giornalisti) e una guerra civile che spacca il paese gettandolo in uno scenario post-apocalittico di guerra. Due reporter, che poi diventano tre e a cui si aggiunge un’aspirante fotografa, hanno deciso di andare al cuore del disastro, in quello che se questo fosse un film di zombie sarebbe dove ha avuto origine il contagio, il posto più pericoloso del paese: a Washington. Lì il presidente è asserragliato e vive gli ultimi giorni del suo potere. L’obiettivo è fotografarlo e intervistarlo (in qualche modo) prima che venga ucciso dall’esercito.

L’asse principale del racconto è un rapporto madre/figlia tra la grande fotografa (Kirsten Dunst, il vero perno del film sul cui volto si misura la follia di tutto, e veicolo del suo senso ultimo) e la giovane fotografa (Cailee Spaeny) che vorrebbe essere come lei, che è raccontato come di solito si raccontano i rapporti tra uomini in situazioni pericolose: con poche parole e un sentimentalismo soffocato. Il resto è animazione di una vicenda il cui scopo principale è mettere in primo piano lo sfondo. Non a caso in certi punti Civil War ricorda The Last Of Us (gioco e serie), ribadendo come il cinema ha smesso di indicare la via e basta ma ha cominciato a rubare soluzioni e atmosfere dalle altre forme di audiovisivo una volta “derivate”. Sono i comprimari a contare(come Jesse Plemons, anche qui matto controllato come sempre), è il carattere dei compagni di avventura a pesare (eccezionale Wagner Moura, un drogato di tensione). Del resto ogni film post-apocalittico sta sulle spalle dei precedenti, ne replica tutte le trovate e ne aggiunge di sue, per creare un racconto sempre più plausibile di un futuro derelitto. E qui la plausibilità è altissima.

Ma se Civil War è un vero grande film americano moderno (genere commerciale e realizzazione da autore) non è per lo spunto, quanto per la maniera in cui gira il coltello nella piaga, imbastendo quello che sempre di più diventa un film di guerra. Gli ultimi 20 minuti di caccia al presidente a Washington sono il miglior film di battaglia visto quest’anno con una gestione del sonoro e della musica tecnicamente sopraffini. E tutto è giustamente concentrato sui giornalisti. In ogni scena di guerra Garland sa che deve guardare i giornalisti, sa che i reporter sono il nemico e sa che se vuole tenere alta la sua allegoria (quel futuro è figlio di come nel presente l’America è sempre più divisa in estremismi), deve partire dall’informazione, da come questa sia considerata il nemico da molti e da come invece quel lavoro sul campo sia la parte muscolare della democrazia.

È facile dire che i giornalisti possono essere la parte eroica di un conflitto, difficile è imbastire un racconto come Civil War, in cui i protagonisti non hanno gli ideali e le motivazioni degli eroi, ma inseguono un bisogno di documentare malato che è anche un bisogno di vedere in prima persona. Lo stesso desiderio che i film alimentano nello spettatore (non a caso qui anche noi siamo portati a bramare di arrivare a vedere il presidente). E alla fine sa lasciare con la domanda giusta, cioè quanto si può essere contenti di come si è risolto il conflitto? Quanto quel tipo di violenza, quella soluzione estrema è davvero soddisfacente? E quanto invece non è una sconfitta anche per chi la auspicava.

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