City Of Lies - L'ora della verità, la recensione

A partire dalla morte di Tupac Shakur, City of Lies - L'ora della verità costruisce cinema d'inchiesta sulla passione per i complotti

Critico e giornalista cinematografico


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È veramente difficile fare cinema d’inchiesta senza nuove rivelazioni da offrire. Di più è farlo su casi dubbi, fumosi e ancora di più è farlo sostenendo le tesi più difficili, quelle a maggior tasso di complotto percepito. Di sicuro è impossibile farlo come lo fa City of Lies, cioè con un’aria da puntata di Mistero, in cui una specie di giovanile eccitazione contamina tutto il racconto all’insegna della passione per il retroscena occultato.

In più di un punto infatti l’impressione è che questo film, scritto dall’attore alle prese con la sua prima sceneggiatura Christian Contreras (a partire dal romanzo di Randall Sullivan) e diretto da Brad Furman, sia decisamente più interessato a raccontare l’occultamento che la verità occultata, molto più interessato a mostrare che esiste un complotto piuttosto che a raccontare cosa complotto preveda.

In una storia portata avanti come l’ordinaria amministrazione di qualsiasi poliziesco di stampo anni ‘90, in cui Brad Furman inietta buone dosi di ricostruzioni a posteriori in stile Errol Morris (quando dice bene) e CSI (quando dice male), accade che un giornalista si trovi ad indagare su un poliziotto che indagava la morte di Tupac Shakur, il rapper che negli anni ‘90 fu ucciso a breve distanza dal rivale Notorious B.I.G., sempre con armi da fuoco. Ci sono diversi aspetti di quella morte che sono un mistero e questo mistero implica che esistesse (e forse esista ancora) una gang criminale all’interno del corpo di polizia, il quale non ha nessun interesse a lasciare che venga scoperta.

Si passa così dalla scoperta di un complotto, all’analisi del complotto, al racconto delle sue implicazioni fino a che il film non inizia a invorticarsi in se stesso.
Sempre meno interessato a cosa sia successo a Tupac, City of Lies mette al centro il poliziotto interpretato da Johnny Depp, così ossessionato da quell’omicidio e dalle implicazioni per il corpo di polizia da farsi cacciare, cominciando a indagare la sua rettitudine. A questo punto, dopo aver cambiato centro della trama 3 volte, per City of Lies inizia lo schienadrittismo e il tasso di prediche si impenna. Inizia Forest Whitaker, nei panni del giornalista, e tutti lo seguono in una gara a chi ha la schiena più dritta tramite un’asfissiante serie di tirate su (nell’ordine): la legge, l’importanza della divisa, l’ordine, la bontà di chi denuncia e ovviamente il giornalismo.

Ma anche solo chi vorrebbe vedere Whitaker e Depp creare qualcosa di valevole rimane deluso. Perché se l’indimenticato Ghost Dog fa sempre il suo, lo stesso non può dirsi da troppo tempo ormai di Johnny Depp.

Non si fa infatti in tempo ad esultare per un film in cui finalmente Depp è truccato “poco” (zero, come noto, è inspiegabilmente impossibile per quest’attore che identifica la recitazione con il trucco) che il suo personaggio invecchia e con il passare dei decenni arriva il trucco invecchiante, la voce modificata e tutto il solito circo. Così di nuovo abbiamo un film con Johnny Depp che delega al make up la parte centrale della recitazione, ovvero la creazione di un personaggio, una persona altra che è la fusione di qualcosa di vero e qualcosa di finto, qualcosa di proprio e qualcosa scritto da qualcun altro. E così se ne va anche l’ultima possibilità per City of Lies di avere un senso.

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