Cinquanta Sfumature di Rosso, la recensione

La conclusione del franchise sul sesso sadomaso di Cinquanta Sfumature di Rosso finisce di tradire i suoi presupposti e svela il suo essere storia sul matrimonio

Critico e giornalista cinematografico


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Il sesso, se mai c’è stato, è sparito. Con l’arrivo del capitolo sul “rosso” (è quella la safe word tra i due ormai coniugi) l’attrattiva del sadomaso come terreno di negoziazione, pratica a cui iniziare una ragazza da comprendere e introiettare, che attira e repelle al tempo stesso, è finita. I due praticano sesso convenzionale in abbondanza e ogni tanto quello sadomaso senza troppe storie. Di fatto non è più una questione né un dettaglio che distingue il film dai suoi simili.

Cinquanta Sfumature di Rosso inizia lì dove molti altri film sarebbero potuti finire, con il montaggio di un matrimonio e di una luna di miele a Parigi e Montecarlo immersi nella musica da classifica (una costante del film quella dei montaggi musicali) e soprattutto nel lusso. Come già il capitolo precedente anche questo flirta con un catalogo di prodotti ad altissima spesa. Macchine, case, aerei, bicchieri, gioielli, abiti, arredamenti e ogni cosa possa costare. A questo il film accompagna in maniera più evidente di prima una sottotrama costruita nei precedenti capitoli, quella della vendetta contro i due da parte di un impiegato della casa editrice dove lavora Anastasia e quella ancora più ridicola e superficiale delle origini di mr. Grey. Non è più la storia del formarsi di una coppia ma del suo mantenimento in un momento di difficoltà. È proprio un altro film.

La verità è che per quanto la serie di Cinquanta Sfumature non abbia mai brillato per sofisticazione, almeno nel suo secondo capitolo (Cinquanta Sfumature di Nero) era riuscita in maniera goffa ad essere un guilty pleasure da provincia, a mostrare un po’ di quel che promette, ovvero la maniera in cui una ragazza mediamente ingenua entri a contatto con un mondo di sesso sado maso che non conosceva e che temeva. Qui invece ogni momento effettivamente sessuale è stemperato da un montaggio musicale, come se ci fosse la paura dei veri suoni, della vera durata o anche solo del vero contatto tra pelli (al cinema il sonoro sostituisce il tatto, sentendo il rumore di un contatto capiamo la sostanza dei materiali o le superfici). Di fatto il sesso è la facciata, è diventata la maniera in cui questi due sposini rimangono uniti nonostante sembrino così distanti.

Non è infrequente che i franchise inizino in una maniera per tradire poi quei presupposti (Hunger Games alla fine non è più sugli Hunger Games) ma ciò che ora ha sostituito i presupposti scabrosi (risate) di Cinquanta Sfumature di Grigio è indistinguibile dalla soap opera, sia per contenuto che soprattutto per forma. Le paturnie amorose sono l’essenza di tantissimo cinema, anche il migliore, ma il modo in cui sono affrontate, le indecisioni che scatenano e la delicatezza con cui sollevano i patemi d’animo costituiscono la loro bontà. Cinquanta Sfumature di Rosso invece imbastisce una trama di rapimenti e salvataggi molto pretestuosa per poi nemmeno affrontare l’unico possibile conflitto del film, quello di un modello di femminilità retroguardista e conservatore che si batte per fingere di poter essere adatto alla contemporaneità senza smettere di farsi regalare tutto dal marito ricco. Il che obiettivamente, a fronte di tutto il product placement e il millantato sesso, è il minimo che si potesse chiedere.

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