Cinema Komunisto, la recensione

Rievocando gli anni dell'industria filmica patrocinata da Tito Cinema Komunisto suscita una dolce nostalgia generica per lo scorrere inevitabile del tempo

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

C'è una potenza incredibile in questo documentario sul cinema, una che è tanto inaspettata quanto devastante. Viene dalle immagini dei grandi film della Jugoslavia di Tito, opere magniloquenti come molto intime, largamente sconosciute ma intriganti. Sono i materiali di un film che oscilla tra repertorio ed interviste, come si conviene al genere dei documentari sul cinema, per raccontare gli anni di Tito e la sua passione per il cinema. Come investì nella propaganda ma anche come si godette in virtù del suo potere il meglio dell'industria americana e internazionale.

Tito invitava grandi nomi di Hollywood, promuoveva generi e grandi produzioni, ambiva a dar vita ad un'industria e nelle sue pieghe vedeva passare film di minuzioso sentimentalismo. Ad ogni modo ogni sera si faceva proiettare un film per sè dal suo proiezionista personale.

È evidente già dalla scelta del tema che Cinema Komunisto oscilla tra la nostalgia per un passato generico (nessuno ha nostalgia di Tito ma esiste un senso nostalgico nelle rievocazioni degli intervistati e nelle immagini dei film dai colori andati) e la gioia della costruzione grottesca, il divertimento del retro del mondo del cinema e la passione per l'archeologia filmica.

Costumi andati, volti ingrinziti che rievocano tempi d'oro in cui le star americane sbarcavano in Jugoslavia per prendere parte ad opere di pura propaganda, tutto in Cinema Komunisto è un palazzo ormai diroccato. E parlando di cinema degli anni '60 e '70 ovviamente non manca molta Italia.

Nonostante Cinema Komunisto sia totalmente privo di vitalità nel suo esporre l'epopea filmica degli anni di Tito, non si può negare che la storia su cui getta luce, soprattutto la maniera molto spoglia e minimalista in cui lo fa, abbiano la forza dei grandi racconti. Nella sua apparente mancanza di posizione, nella maniera originale in cui si disinteressa dell'elefante nella stanza, cioè del ruolo di Tito nei confronti del suo paese, c'è un'arroganza autoriale fantastica, il beneficio del più grande dono si possa fare al pubblico: l'orgoglio intellettuale di dedicarsi al proprio tema senza sentirsi in dovere di ribadire la più scontata e (in questo caso) superflua delle prese di posizione.

Continua a leggere su BadTaste