Il cielo brucia, la recensione

Le direttrici del cinema di Petzold scivolano in Il cielo brucia nel tipico cinema estivo europeo, restando chiuse nelle maglie dello script

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La nostra recensione de Il cielo brucia, presentato al Torino Film Festival e al cinema dal 30 novembre

Negli ultimi due lavori di Christian Petzold, è la natura a influenzare le azioni dei personaggi come prima faceva la Storia. In Undine era l'acqua, in questo Il cielo brucia il fuoco, a livello letterale e metaforico. In una torrida estate, due giovani berlinesi arrivano in un casa sul mar Baltico per trascorrere le vacanze, mentre intorno a loro gli incendi stanno dilaniando i boschi, così da costringerli a passare il tempo tra l'abitazione e la spiaggia nelle vicinanze. Leon è un giovane scrittore che sta terminando il suo secondo romanzo, Felix deve preparare un portfolio per entrare in un'accademia di belle arti. A loro si unisce Nadja, lavoratrice stagionale e presenza sfuggente ed eterea, che da subito attrae Leon.

Dopo aver delineato le premesse della storia, la questione climatica resta sullo sfondo (per ritornare poi nel finale) e Il cielo brucia va verso i lidi di una tipica idea di film estivo europeo, dalla Monica di Bergman a Guadagnino, dove la leggerezza del contesto fa emergere forti sentimenti, tra il mare, i pasti all'aperto, le notti insonne. La Nadja di Paula Beer, come nei film precedenti di Petzold, è donna indipendente che tanto attira tanto sfugge a Leon, sulla cui immaturità emotiva si fondano le coordinate della storia. Il giovane è uno scrittore in difficoltà che usa il suo lavoro come scusa per rintanarsi in se stesso, che prova qualcosa per la ragazza ma preferisce fare sempre un passo indietro. Frequenti i primi piani del suo interprete Thomas Schubert, dal volto sempre esterrefatto, che guarda Nadja e gli altri intorno a lui legare tra di loro mentre lui preferisce rimanere in disparte. Evidente l'ironia con cui Petzold costruisce il suo personaggio e riprendere il suo fare impacciato, il suo fallimento nella sfera relazionale. Si delinea dunque un teorema sull'impotenza dello sguardo maschile e un ritratto di donna che non diventa mera proiezione dei desideri dell'uomo, ma il film in generale rimane chiuso nelle maglie della sua sceneggiatura.

Il cielo brucia mostra infatti i limiti del cinema del suo regista. La densità emotiva dei precedenti lavori sapeva tenere avvinghiati fino al climax, con uno studio approfondito dei sentimenti e un preciso specchio tra le vicende dei personaggi e il contesto storico-sociale. Qui invece il clima disteso e sospeso che spesso ritroviamo nei suoi film scivola in una più generica malinconia estiva, con un particolare interesse di Petzold nell'analizzare le dinamiche di gruppo, tra incontri fugaci e lunghe sequenze dei personaggi seduti a un tavolo in un gioco di sguardi e seduzioni. Situazioni consuete in cui i riferimenti "alti", letterali e esistenzialisti, che dovrebbero marcarne l'aspetto peculiare, non vengono qui sfruttati a dovere. I personaggi citano opere che parlano di disastri naturali, con un evidente rimando alle conseguenze del cambiamento climatico che loro stessi stanno subendo. Ma non c'è legame diretto con loro e dunque i loro discorsi appaiono tanto intellettuali quanto fini a se stessi, mantenendo i protagonisti distanti, interessanti per il regista ma meno per lo spettatore. E così sarà inutile una scena finale che, richiamando la dinamica di quella di La donna dello scrittore, rimarrà l'unico momento veramente pregnante del film.

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