Chupa, la recensione
C'è una trama spielberghiana tra traumi familiari e soluzioni fantastiche a cercare di elevare Chupa ma il film ha le gambe molli
La recensione di Chupa, il film di Jonas Cuaron disponibile su Netflix
Siamo a metà anni ‘90, ce lo rivelano un poster di Jurassic Park nella camera dei protagonisti e la maniera in cui sono vestiti i ragazzi, quando Alex, ragazzo di famiglia messicana da sempre vissuto in America, viene mandato dalla madre a stare per qualche tempo dal nonno, ex lottatore messicano mascherato, con i cugini quasi coetanei. Alex nemmeno parla spagnolo, non ha mai vissuto in campagna e lì si troverà a dover difendere un cucciolo di chupacabras, creatura mitologica del folclore locale che si scopre esistere davvero ed essere tenera (e somigliare molto a Trico di The Last Guardian).
Succederà chiaramente tutto quello che deve succedere in questi casi, da uno snodo familiare da risolvere fino al rocambolesco finale in cui tutta la famiglia unita, più il nonno ex lottatore che rispolvera le sue vecchie mosse per aiutare i ragazzi, salvano la creatura. Ma senza grandi entusiasmi. Non aiuta il fatto che Jonas Cuaron sembra poco interessato alla direzione degli attori. Sono molto ordinari i ragazzi e soprattutto è abbastanza sotto la media Demian Bichir nei panni del nonno, a disagio con il personaggio e molto poco a fuoco quando deve aiutare i ragazzi e recitare i punti più emotivamente significativi. Lì è dove un film di questo tipo si gioca le sue carte per non essere solo una storiella con animaletto/creaturina e lì è esattamente dove Chupa fallisce.