Chupa, la recensione

C'è una trama spielberghiana tra traumi familiari e soluzioni fantastiche a cercare di elevare Chupa ma il film ha le gambe molli

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Chupa, il film di Jonas Cuaron disponibile su Netflix

A giudicare da Chupa, il suo secondo lungometraggio, Jonas Cuaron ha due padri: quello biologico, Alfonso, da cui riprende un certo modo di guardare il Messico attraverso i viaggi in macchina e le impressioni di un ragazzino che dall’America fa una vacanza nella terra da cui viene la sua famiglia ma di cui sa poco (alcune inquadrature da fuori il finestrino dell’auto verso l’interno sembrano prese da Y Tu Mama Tambien); ma soprattutto Steven Spielberg, dal cui cinema ruba tutta la introduzione (sembra l’inizio di un film di Indiana Jones) e più in grande l’idea di una storia che finge di essere sul rapporto tra un bambino e una creatura da proteggere dai cattivoni e in realtà parla di altre questioni.

Siamo a metà anni ‘90, ce lo rivelano un poster di Jurassic Park nella camera dei protagonisti e la maniera in cui sono vestiti i ragazzi, quando Alex, ragazzo di famiglia messicana da sempre vissuto in America, viene mandato dalla madre a stare per qualche tempo dal nonno, ex lottatore messicano mascherato, con i cugini quasi coetanei. Alex nemmeno parla spagnolo, non ha mai vissuto in campagna e lì si troverà a dover difendere un cucciolo di chupacabras, creatura mitologica del folclore locale che si scopre esistere davvero ed essere tenera (e somigliare molto a Trico di The Last Guardian).

Praticamente il cinema anni ‘80 più smaccato trasportato nei ‘90 ma senza troppi cambiamenti e soprattutto senza la maestria dei propri modelli. Nonostante alla produzione ci sia Chris Columbus il film stenta ad entrare nel vivo e trovare il passo ritmato giusto. Dopo un inizio in cui vengono presentati prima il chupa, separato dalla mamma e cercato dal perfido Christian Slater (!), e poi Alex, il film svela presto le sue carte e si concentra tantissimo sulla storia dei ragazzi in Messico, una trama di ricordi, legami familiari e retaggi che non ingrana mentre della creaturina a lungo non sappiamo più niente. E anche quando ritorna l’interazione tra i protagonisti e il chupa, questa è sbrigativa e molto poco significativa. Non solo lo stupore per l’esistenza dell’essere è scarso ma anche come si relazionano con lui e il legame che stringono è molto poco curato.

Succederà chiaramente tutto quello che deve succedere in questi casi, da uno snodo familiare da risolvere fino al rocambolesco finale in cui tutta la famiglia unita, più il nonno ex lottatore che rispolvera le sue vecchie mosse per aiutare i ragazzi, salvano la creatura. Ma senza grandi entusiasmi. Non aiuta il fatto che Jonas Cuaron sembra poco interessato alla direzione degli attori. Sono molto ordinari i ragazzi e soprattutto è abbastanza sotto la media Demian Bichir nei panni del nonno, a disagio con il personaggio e molto poco a fuoco quando deve aiutare i ragazzi e recitare i punti più emotivamente significativi. Lì è dove un film di questo tipo si gioca le sue carte per non essere solo una storiella con animaletto/creaturina e lì è esattamente dove Chupa fallisce.

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