Christian (prima stagione): la recensione
Christian mischia superpoteri e religione trovando una buona chiave satirica ma la diluisce nel dramma e in qualche episodio di troppo
Christian, interpretato da Edoardo Pesce, è un picchiatore improvvisatosi santo(ne) locale. Vive in enormi palazzi grigi, caratterizzati da un anonimato infernale. La madre è malata di Alzheimer. Intorno a lui non c’è possibilità di redenzione. Bisogna vivere alla giornata guadagnando il possibile con atti criminali. Quando si manifestano primi prodigi Matteo (un Claudio Santamaria ormai a suo agio con ogni tipo di trucco) si mette alla ricerca della verità. È un deluso dalla religione, che conserva però dentro la scintilla di una ricerca fortissima di una ragione. Non crede, ma vuole credere. Quello che troverà potrebbe però non piacergli.
Credenze sincere, religiosità inculcata e scaramanzia sono tre dimensioni sempre presenti. Se poche sono le figure veramente negative, altrettanto esigui sono i “puri di cuore”. Tutto ha una doppia faccia: persino l’innocenza di un agnello va preservata con coccole affettuose per mantenere la morbidezza della carne mentre lo si sgozza. L’immaginario evangelico che racconta parabole esistenziali, testimonianze di conversione e vite dei santi è da sempre parte integrante del tessuto culturale italiano. Tutti sono pronti ad aggiornare i propri altarini. Il "santo" trova un terreno fertile nella malavita per farsi credere ed ergersi a simbolo. Affrontare così le credenze cattoliche, con violenza pulp e ombre noir, è una soluzione che dona a Christian una forte vena satirica. La vera punta di diamante del progetto.
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Il problema del progetto sta però nella forma di serie TV. I sei episodi dilatano troppo i pochi fatti che avvengono. Già in 4 puntate da un’ora l’intera stagione avrebbe avuto ampio spazio per svilupparsi. Invece il ritmo disteso, quasi meditativo, sfinisce nell’attesa che capiti qualcosa di rilevante. Abbondano i dialoghi alla Tarantino dove al tavolo di un bar si parla del più e del meno. Nel caso italiano gli argomenti sono calcio, donne e fatti locali. Spesso meno artificiali di come si potrebbe temere da una scelta del genere, funzionano nel definire i toni pulp. Quello che manca è però lo stesso ritmo interno che avrebbe fatto uscire questa forma retorica dal puro artificio di stile. Così non è.
Tutto è infatti così solenne che sembra di assistere ad una messa interminabile, dove tutto è già scritto e visto altrove in altri riti\film molto simili. Con tanto auto compiacimento, la serie si protrae con grande fiducia di sé. Cura lo stile, molto meno la sostanza, Accumula uno dietro l’altro figure con cui è difficile empatizzare e che, anzi, si vorrebbe vedere soffrire maggiormente. Almeno per dare peso alle cose.
Tutto ciò che avviene all’interno della serie sembra infatti confinato nei limiti dei luoghi rappresentati. Si vuole capire come questi miracoli abbiano influenzato i media, spesso così attenti ad ogni pianto di un’effigie sacra. Invece lo spunto che da solo basterebbe a riempire ore e ore “Gesù oggi userebbe i social? Andrebbe su Canale 5 a parlare di sé?” viene schivato per far guadagnare un po’ di oscurità al tutto. Insomma, Gomorra è sempre in agguato, anche quando si cerca di partire da lì proprio per distaccarsene.
Christian aveva quindi bisogno di più ironia, più cattiveria e soprattutto di più eventi. I colpi di scena che arrivano sono infatti ampiamente chiamati. Qualche ribaltamento in più avrebbe smosso le acque maggiormente compattando il tutto. Non c’è ragione infatti nella estenuante dilatazione del tempo se non nella pretesa di filmare chissà che sentimenti. I pur bravi attori non riescono però a convincere ad interessarsi a questo. Con un high concept del genere, sprecare ben due minuti in cui il protagonista guarda la madre a letto e le accarezza la testa (e non fa altro), è un “peccato mortale”. Tutti gli episodi sono costellati da sospensioni del genere. Una pretesa di realismo, di catturare i veri sentimenti, che invece denota una scarsa fiducia nell'idea sovversiva.
Si poteva giocare infatti molto di più. Si doveva rischiare, anche a costo di sbagliare e cadere male, per cercare di raggiungere veramente gli standard della nuova televisione statunitense, per sconvolgere il pubblico. Invece, ancora una volta, un buon film lungo è stato preso e dilatato in sei episodi. Così i tempi morti e i lunghi dialoghi fanno sembrare Christian peggio di quello che è: una buona idea, sviluppata credendoci, ma diluita all’eccesso fino a perdere quel sale necessario a pungere la lingua e a renderla indimenticabile.
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