Chien de la casse, la recensione
Chien de la casse è il grado zero del realismo sociale impegnato, senza idee e senza battito cardiaco. Bravo però Raphaël Quenard.
La recensione di Chien de la casse, film d’esordio di Jean-Baptiste Durand in arrivo al cinema il 23 maggio.
Se volessimo farlo più interessante di quello che è potremmo dire che Chien de la casse sembra la versione estesa a lunghezza film della celeberrima scena madre di Fronte del porto: “potevo essere qualcuno” è quello che direbbero, se interpellati, più o meno tutti i protagonisti del film di Durand. Tutti sanno di potenziale sprecato in questa Le Pouget (Sud della Francia) tanto incantevole quanto addormentata, dove ci si divide fra piccolo spaccio e noiosissime serate tutte uguali a chiacchierare con le stesse cinque persone nella piazza cittadina.
Siamo così cattivi con Chien de la casse – c’è assai di peggio in giro – perché è un film che esemplifica bene il vizio di certi sguardi sociali di credere che la “verità” di ciò che raccontano basti a giustificare il tempo e l’attenzione del pubblico; come se malessere esistenziale, degrado delle periferie, irrealizzazione e co-dipendenza potessero magicamente e come per osmosi trasferirsi alla coscienza dello spettatore per il solo fatto di averne avuta la (nobile) intenzione. Invece serve una retorica, intesa in senso neutro come capacità di costruire racconto, imbastire drammaturgie, dirigere gli attori che non sanno già dirigersi da soli. Altrimenti anche il più duro degli spaccati di strada rischia di non fare né caldo né freddo.