Chien de la casse, la recensione

Chien de la casse è il grado zero del realismo sociale impegnato, senza idee e senza battito cardiaco. Bravo però Raphaël Quenard.

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La recensione di Chien de la casse, film d’esordio di Jean-Baptiste Durand in arrivo al cinema il 23 maggio.

Non chiedere cosa può fare il tuo spettatore per te, verrebbe da dire a Jean-Baptiste Durand. Chiedi cosa puoi fare tu per il tuo spettatore. Non c’è niente di particolarmente brutto o sbagliato nel suo film d’esordio Chien de la casse. Ma non c’è neanche niente di memorabile o granchè efficace in questo ritratto (pur evidentemente sentito) di una provincia francese immobile e deprimente. Un film che prima ancora che finisca si sa già che ce lo si scorderà immediatamente, perso fra i milioni di esempi medi-mediocri di realismo sociale “impegnato” sfornati da decenni dal cinema d’oltralpe.

Se volessimo farlo più interessante di quello che è potremmo dire che Chien de la casse sembra la versione estesa a lunghezza film della celeberrima scena madre di Fronte del porto: “potevo essere qualcuno” è quello che direbbero, se interpellati, più o meno tutti i protagonisti del film di Durand. Tutti sanno di potenziale sprecato in questa Le Pouget (Sud della Francia) tanto incantevole quanto addormentata, dove ci si divide fra piccolo spaccio e noiosissime serate tutte uguali a chiacchierare con le stesse cinque persone nella piazza cittadina.

Chissà cosa sarebbe questo film senza la bravura di Raphaël Quenard, nella parte di un tossichello di provincia che rischia di buttare via la sua esistenza non realizzando mai il sogno di aprire un ristorante. Il pochissimo cinema che si respira in Chien de la casse è completamente farina del suo sacco, mostrandolo in grado di spremere brio e carisma da un progetto altrimenti del tutto anemico (è in questo tipo di film che si vede davvero un bravo attore). Niente se non la sua faccia da schiaffi e il suo buttare l’anima in ogni scena tiene avvinti alla storia della bromance tossica fra il suo personaggio e quello di Anthony Bajon, che rischia di incrinarsi quando quest’ultimo si innamora di una ragazza (Galatea Bellugi).

Siamo così cattivi con Chien de la casse – c’è assai di peggio in giro – perché è un film che esemplifica bene il vizio di certi sguardi sociali di credere che la “verità” di ciò che raccontano basti a giustificare il tempo e l’attenzione del pubblico; come se malessere esistenziale, degrado delle periferie, irrealizzazione e co-dipendenza potessero magicamente e come per osmosi trasferirsi alla coscienza dello spettatore per il solo fatto di averne avuta la (nobile) intenzione. Invece serve una retorica, intesa in senso neutro come capacità di costruire racconto, imbastire drammaturgie, dirigere gli attori che non sanno già dirigersi da soli. Altrimenti anche il più duro degli spaccati di strada rischia di non fare né caldo né freddo.

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