La chiamata dal cielo, la recensione
Scritto e girato da Kim Ki-duk ma montato e postprodotto da amici e collaboratori non è un film rifinito ma contiene momenti eccellenti
La recensione di La chiamata dal cielo, il film postumo di Kim Ki-duk presentato a Venezia79
C’è innanzitutto un senso trascinante di amore giovanile che sembra uscito dai film più secchi e ribelli di Bergman (Monica e il desiderio su tutti ma anche Un’estate di sorrisi o il pazzesco Sete), scene e momenti di pelle che si struscia nell’erba, accarezzati da un vento estivo, in cui non esiste niente intorno agli amanti se non una natura da romanticismo tedesco in cui allo sturm e il drang è sostituita una leggerezza asiatica e un senso d’astrazione che sono la firma di Kim Ki-duk. Ed è tutto un sogno, il sogno sognato dalla protagonista, che si appisola all’inizio e viene di continuo svegliata da telefonate di qualcuno che le spiega che potrà vivere la storia che sta sognando a patto che continui a sognarla. Bellissimo.
E anche in un finale grezzo in cui la gestione sempre intelligente della violenza prende le vie più semplici e non sempre a fuoco c’è un’immagine eccezionale, potenzialmente volgarissima ma in realtà delicata. Se è impossibile dimenticare il bacio nascosto finale di Ferro 3 e la bilancia che segna zero quando i due amanti ci salgono sopra, qui c’è un altro gesto potente, un pezzo di legno di inequivocabile forma fallica già visto lungo il film che entra in mela anch’essa di legno, la penetra proprio senza negare l’allegoria, finendo però per completarla proprio quando i due amanti sembrano riconciliati. Il sesso come unica possibile risposta senza mostrare il sesso ma raccontandone la potenza sentimentale.