La chiamata dal cielo, la recensione

Scritto e girato da Kim Ki-duk ma montato e postprodotto da amici e collaboratori non è un film rifinito ma contiene momenti eccellenti

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di La chiamata dal cielo, il film postumo di Kim Ki-duk presentato a Venezia79

Con quali occhi ci si mette a guardare La chiamata dal cielo fa tutta la differenza del mondo. Perché questo film scritto e girato da Kim Ki-duk, ma non finito da lui che è morto di Covid a dicembre 2020, è incompiuto, messo insieme, montato e postprodotto da collaboratori e amici. I valori produttivi sono infami, la qualità tecnica pessima e manca anche quella capacità dei migliori registi di fare tanto con poco, perché materialmente il regista non c’era quando era il momento di mettere le toppe e supplire alla povertà con il talento e la visione. Al massimo ci sono delle intuizioni così forti che riescono ad imporsi a prescindere da chi poi le monti. Quindi non è difficile respingerlo un film così, ma se ci si mette a guardarlo con l’idea di vedere l’ultimo gesto cinematografico di un fenomenale creatore di immagini, se non si pretende un film completo ma si cercano dei momenti, allora c’è molto.

C’è innanzitutto un senso trascinante di amore giovanile che sembra uscito dai film più secchi e ribelli di Bergman (Monica e il desiderio su tutti ma anche Un’estate di sorrisi o il pazzesco Sete), scene e momenti di pelle che si struscia nell’erba, accarezzati da un vento estivo, in cui non esiste niente intorno agli amanti se non una natura da romanticismo tedesco in cui allo sturm e il drang è sostituita una leggerezza asiatica e un senso d’astrazione che sono la firma di Kim Ki-duk. Ed è tutto un sogno, il sogno sognato dalla protagonista, che si appisola all’inizio e viene di continuo svegliata da telefonate di qualcuno che le spiega che potrà vivere la storia che sta sognando a patto che continui a sognarla. Bellissimo.

Il problema semmai è il sound design disastroso, il pressappochismo della produzione, le luci naturali sfruttate nella maniera peggiore. Un film la cui realizzazione pare amatoriale che però contiene guizzi da maestro. C’è un taglio di montaggio brutale che non si può definire in nessuna maniera se non mostruoso per suggestione ed intuitività da una litigata dentro un caffè che finisce con un inatteso e potentissimo abbraccio ad un altro abbraccio uguale ma nella natura e nel vento, ciò che accade affiancato a ciò che significa spiegato con i mezzi del cinema. Puro Kim Ki-duk.

E anche in un finale grezzo in cui la gestione sempre intelligente della violenza prende le vie più semplici e non sempre a fuoco c’è un’immagine eccezionale, potenzialmente volgarissima ma in realtà delicata. Se è impossibile dimenticare il bacio nascosto finale di Ferro 3 e la bilancia che segna zero quando i due amanti ci salgono sopra, qui c’è un altro gesto potente, un pezzo di legno di inequivocabile forma fallica già visto lungo il film che entra in mela anch’essa di legno, la penetra proprio senza negare l’allegoria, finendo però per completarla proprio quando i due amanti sembrano riconciliati. Il sesso come unica possibile risposta senza mostrare il sesso ma raccontandone la potenza sentimentale.

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