Chi segna vince, la recensione

Con la prospettiva giusta, l'idea giusta e il punto di vista giusto Chi segna vince riesce a mancare l'appuntamento con il bel film

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Chi segna vince, il film di Taika Waititi in sala dall'11 gennaio

Un film americano su un genere europeo fatto da un regista neozelandese che racconta una storia del popolo delle Samoa Americane. Non sorprende quindi che in Chi segna vince non c’è la classica parabola americana dei perdenti, i quali passando attraverso una grande dedizione si rivelano dei vincenti e capiscono così come mettere a fuoco anche la loro vita, ma più una europea di un gruppo di persone marginali, dalla vita quieta che però sognano in grande qualcosa per loro di impossibile e tentano un’impresa la cui vittoria è modesta (una squadra di calcio che ha subito la più grande sconfitta della storia del calcio vuole almeno segnare un goal nelle prossime partite). Sono questi solitamente film che prendono in giro le imprese eroiche del cinema americano tradizionale e nei quali gli inglesi sono i più abili, film in cui la vittoria umana è l’unica cosa che conta e in cui soprattutto non bisogna per nessuna ragione perdere la propria identità culturale o sociale. L’importante è non trasformarsi e rivalutare il piacere di essere piccoli e vivere ai margini.

A scoprire un ritmo e una filosofia diversi è qui l’allenatore della MLS (la lega professionistica di calcio americana), inizialmente depresso per questo incarico infame, in cerca di vittoria e rabbioso. Quando arriva sull’isola alla sua valigia manca una rotella, sbilenca come lui annuncia il suo problema. A contatto con la cultura rilassata e inclusiva delle Samoa Americane troverà un nuovo modo per affrontare lo sport, il concetto relativo di vittoria, e la propria vita. La prima cosa che è evidente in Chi segna vince è che il protagonista formalmente è Michael Fassbender ma in realtà il film non è su di lui. Non è il suo lo sguardo del film, anzi. Chi segna vince guarda lui come lo guardano i samoani, come qualcuno che ha sbagliato tutto, un po’ ridicolo come lo sono i bianchi che non vivono su quell’isola e da aggiustare. Che è l’idea migliore di tutto il film.

Lo stesso cineasta ci introduce alla storia e fa da narratore materialmente, in un atto di esposizione dei propri mezzi di enunciazione (figurati), travestito da macchietta samoana (ma Waititi ha spalle comiche molto larghe e può permetterselo). È tra di loro, si mette nei loro panni (letteralmente) e racconta la storia come lo farebbero loro. In uno dei momenti più inventivi saranno addirittura proprio i samoani, collettivamente, a dare la loro versione, quella tramandata, di come sono andate le cose. Era senza dubbio la maniera giusta per affrontare questa storia vera, peccato che Chi segna vince poi non abbia mai la capacità di Jojo Rabbit di usare l’umorismo per svelare qualcosa, ma lo usi semmai come condimento occasionale di una storia mal raccontata su personaggi mal scritti.

Non funzionano mai le interazioni drammatiche (uno scambio di nomi che dovrebbe svelare qualcosa di tragico è scritto per essere quasi commovente ma non lo è), non abbiamo nessuna reale ragione per tenere alle sorti dei personaggi e non c’è niente che vada più in là di “quest’isola è un purgatorio” in tutto il film. Cosa ancora più grave, nonostante sia una visione piacevole, non è mai realmente divertente e il problema non sono i samoani (di gran lunga la cosa migliore e quella con cui Waititi si è divertito di più) ma Fassbender. In questa è la sua prima commedia da protagonista non ha nemmeno un momento comico. L’umorismo è tutto intorno a lui ma non dentro di lui, la maniera in cui ne è refrattario lo fa somigliare quasi al villain della storia e gli impedisce di incidere, mettendolo ai margini e con lui il vero godimento

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