Chi è senza peccato - The Dry, la recensione

Chi è senza peccato - The Dry, pur rispettando i canoni del "poliziesco rurale", non ha mai veramente un guizzo che possa appassionare

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Una balla di fieno che rotola nel deserto. Immagine archetipica di molti western (fino all'omaggio coeniano) che torna anche in Chi è senza peccato -The Dry: simbolo di erranza e di solitudine che del film si fa precisa rappresentazione. Adattamento cinematografico del pluripremiato romanzo omonimo scritto da Jane Harper, la storia ha come protagonista il detective di polizia Aaron Falk (Eric Bana), che dopo 20 anni fa ritorno nella sua città natale in occasione del funerale del suo vecchio amico d’infanzia Luke. La polizia locale ritiene che quest'ultimo, prima di togliersi la vita, abbia ucciso sua moglie e suo figlio; Falk accetta così con riluttanza d’indagare sul caso per capire se si tratta di qualcosa di più di un omicidio-suicidio. Le ricerche porteranno alla luce una vecchia e profonda ferita che ha coinvolto il detective diversi anni prima, quella della morte di una ragazza di 17 anni, amica di entrambi gli uomini.

Aderendo a un sottogenere ormai ricorrente (vedi alla voce Top of The Lake), il film mette al centro delle vicende un poliziotto che è costretto a tornare, e a rimanere, in un microcosmo da cui pensava di essere per sempre fuggito, a confrontarsi con la comunità locale e l’astio che questa cova verso di lui. Eric Bana è notevole nel giocare in sottrazione, nel trasmettere tutte le sfumature del suo personaggio che inizialmente si pone come distaccato, per evitare di fare i conti col proprio passato, ma finisce piano piano per rimanere coinvolto, ritrovando la sua vecchia fiamma e decidendo di mettersi al lavoro per far luce sul caso, nella speranza di dimostrare l’innocenza del vecchio amico. Chi è senza peccato - The Dry dunque mette in campo una trama mistery in cui però l’interesse principale non verte tanto sull’investigazione, che procede a rilento, quanto sui personaggi e sul loro versante umano. Ampio risalto è dato alla componente ambientale: nella cittadina di Kiewarra (nel retroterra australiano), dove sono più di 300 i giorni senza pioggia, la siccità colpisce sia i campi di grano sia i suoi stessi abitanti, che in attesa del ritorno delle precipitazioni, cominciano a patire gli effetti dell’afa. Un’ atmosfera evidenziata dall’accecante sole e dal rumoroso vento, presenza persistente e opprimente.

Questo clima di indeterminatezza, questa aridità esistenziale, dovrebbero in teoria rendere sospesa e indecifrabile la narrazione, che nella pratica lo è però molto meno. Nonostante sulla sua figura aleggino ombre oscure, la compostezza del protagonista, la bontà delle sue intenzioni, non vengono mai messe in discussione. Privandolo di un vero dilemma morale, viene meno qualsiasi coinvolgimento nei suoi confronti; solo verso la conclusione la narrazione sembra aprire uno squarcio, attraverso un potenziale sviluppo che però non viene poi approfondito. Allo stesso modo, come appare chiaro fin da subito che la verità sta oltre le apparenze e tutti sono portatori di segreti e bugie, rimane netta la separazione tra personaggi "positivi" e "negativi".

La regia di Robert Connolly fa ricorso (specie nella seconda parte) a una esasperata enfasi evocata in particolare dai ralenti che raggiungono il limite estremo nel finale, risultando indigesti. Anche i tanti flashback che intervallano la narrazione non aggiungono nulla, e anzi levano quel senso di mistero che avrebbe giovato. Così il film, rispettando tutti i passaggi, le situazioni del "poliziesco rurale" (la giovane recluta locale che collabora alle indagini, la cena a casa sua, momento in cui conoscersi meglio…) non ha mai veramente un guizzo che possa appassionare, che possa fare uscire l’intreccio da binari consolidati; e quando arriva inderogabilmente lo scioglimento, ci siamo ormai del tutto disaffezionati.

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