Cenerentola, la recensione

Quando uno studio che non è la Disney crea un film intitolato Cenerentola deve differenziarsi ma toccare un mito è un'operazione complicatissima

Critico e giornalista cinematografico


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Cenerentola, la recensione

Cenerentola non appartiene alla Disney, quindi anche uno studio concorrente, la Columbia può fare un film su quella storia. Ma cosa cambia nell’adattamento quando non se ne occupa la Disney, cosa ha da aggiungere per non far pensare al pubblico (che di regola non conosce le case di produzione dei film che va a vedere) che si tratta di un film Disney?

La risposta è tutta nello sguardo, cioè nell’atteggiamento di revisione di una storia eterna e fuori dal nostro tempo. La Disney recentemente, nel rifare Cenerentola in live action, ha cambiato sostanzialmente molti atteggiamenti per equilibrare il rapporto tra i sessi ma con una delicatezza che gli ha consentito di lasciare inalterato (più o meno) il portato tradizionalista, i cliché e i punti di forza storici della favola. Questo Cenerentola invece vuole centrare i costumi e la scenografia ma distruggere tutto il resto per costruire invece una storia ben più convenzionale densa di tutto quel che una persona di 50 anni pensa piaccia ai giovani.

Quel che rimane è che Cenerentola è maltrattata dalla matrigna e sogna un domani migliore, rimane il ballo in cui il principe sceglie la moglie (ma anche il principe è un ribelle che sogna un domani migliore) e rimane che non potendoci andare sarà una fata madrina a confezionarle l’abito e spedirla con una carrozza magica con l’ordine di tornare prima di mezzanotte. Il resto è abbastanza diverso, a partire dal fatto che Cenerentola parla al re in modi sfrontati e dal fatto che il focus del film sono le personalità del principe e di lei, come vivano il rapporto con genitori o matrigne. Certo poi ci sono anche le canzoni non originali (Somebody To Love, Let’s Get Loud, Seven Nation Army, Material Girl) e una fatina madrina uomo e afroamericano, ma davvero sono dettagli di fronte al resto.

Il principe e Cenerentola si conoscono prima del ballo quando lui gira nel paese sotto mentite spoglie (un po’ come un altro film Disney, Aladdin, ma al contrario) e viene subito preso in giro per il fatto di aver bisogno di un ballo per trovare moglie. Si conoscono quindi come in qualsiasi altro film. In più Cenerentola è fiero del suo essere conscio delle contraddizioni e dei dettagli ridicoli della storia originale, si sente in dovere di trovare una ragione per la quale al gran ballo nessuno riconosce Cenerentola come anche una per spiegare come possa camminare in scarpine di vetro.
E in un sforzo mondialista anche la ragione per la quale la matrigna non la manda al ballo non è perché ha rubato pezzi di abiti altrui ma perché (si inventa) è ormai promessa ad un altro (e le sorellastre sono quasi dispiaciute invece di essere sadiche), un problema da cinema indiano. Non a caso il film dichiara di essere ambientato in un mondo di fantasia e non nel nostro passato, inglobando dinamiche e problemi di diverse aree del mondo, come a non voler appartenere a nessuna nazione, ha una regina afroamericana come Bridgerton e dà a Cenerentola un’aspirazione professionale (fare la stilista).

I problemi però non sono questi revisionismi (come non lo è Camila Cabello nella parte protagonista, forse la scelta migliore di tutta la produzione) ma il fatto che in tutte le parti che aggiunge, specialmente quella dopo la festa, allunghi il brodo senza avere idee migliori di quelle che cancella e senza averne almeno di originali. Si dilunga sui reali, sui problemi di coppia, sulla ricerca d’indipendenza (puntando tutto sul re Pierce Brosnan) e non sulla scrittura, annoiando e non interessando mai. La storia originale è molto originale, quella di questo film è molto banale. Cambiare alcune dinamiche fondamentali come quella della scarpetta (che non è più strumento di suspense ma oggetto che certifica l’approvazione degli adulti per la scelta dei giovani) è un problema di scrittura molto maggiore del fatto che la protagonista alla fine non voglia essere chiamata principessa. È proprio quando Kay Cannon cancella tutte quelle dinamiche che in Cenerentola danno profonda soddisfazione allo spettatore e liberano l’immedesimazione che il film si condanna.

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