Cattiverie a domicilio, la recensione

Un fatto vero è raccontato in Cattiverie a domicilio sfruttandone le potenzialità di commedia ma pretendendo di trasformarlo in femminismo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Cattiverie a domicilio, il film in uscita in sala il 18 aprile

La cosa migliore che si possa dire su Cattiverie a domicilio è che è un film carino. Ed è anche il problema principale. Questa storia di una serie di lettere piene di insulti pesantissimi che arrivano regolarmente nelle case di una comunità inglese negli anni ‘20, senza che nessuno sappia chi le invii ma sconvolgendo gli interni rispettabili di queste case, forse non meritava il tono carino che gli dà Thea Sharrock su una sceneggiatura di Jonny Sweet (già autore di Johnny English colpisce ancora, gioco di parole e identità non voluto).

Sharrock è già responsabile per lo zuccherosissimo e banalissimo The Beautiful Game (su Netflix) per questa commedia invece mette su il tono e il look più presentabili, quello da cinema da grandi occasioni e grandi conflitti. Nella storia delle lettere meschine infatti ne vengono inserite una serie di altre: quella della famiglia alternativa e “diversa” che viene subito incolpata, quella della poliziotta poco considerata perché donna che vuole indagare, e quella di Olivia Colman, la più colpita e la più “per bene” tra le vittime delle lettere, che vive in un nucleo molto maschilista una vita repressa. Sono tre donne in modi diversi messe da parte da una società che non vuole starle ad ascoltare.

Tradurre tutto questo in una commediola è un attimo ed è molto aiutato dal contenuto scurrile delle lettere (piccolo piacere escapista e scatologico giustificato dalla veridicità del tutto), ma non aiuta gli intenti del film che continuamente ribadisce il suo femminismo, che ci tiene a far rimarcare a ogni personaggio le proprie posizioni e che addirittura alla fine spaccia una condanna per una conquista femminista. Non ci sono dubbi che Cattiverie a domicilio abbia tutto quello che serve per interessare, appassionare e per molti versi anche, forse, divertire. Ma questo non ha niente a che vedere con la pretesa di stare al passo del suo discorso femminista, così all’acqua di rose, generico, blando e soprattutto ostentato da avere l’effetto contrario: suonare pretestuoso invece che sentito e autentico.

Che poi alcuni tra i migliori attori su piazza siano presi per replicare lo stereotipo più collegato alla loro carriera (Olivia Colman falsa e cortese, Timothy Spall burbero retrogrado e Jessie Buckley vivace, ribelle e piena di vita) non li aiuta a dare il meglio, anzi li invita a sedersi, ripetersi e rifare se stessi.

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