Catherine, la recensione

In Catherine questo continuo urlare sfrontato del proprio dissenso è fin troppo diretto, retorico, mentre la storia si fa via via meno appassionante e più prevedibile.

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La recensione di Catherine, dal 7 ottobre su Prime Video

È un’Enola Holmes del 1290 quella di Lena Dunham: spigliata, ribelle, sboccata. Una milady che vorrebbe essere un cavaliere crociato, una monaca, una santa… di tutto pur di non doversi inquadrare nel ruolo stereotipico della giovane donna destinata a maritarsi. Catherine è Bella Ramsey, e come Millie Bobby Brown in versione investigatrice non solo è una teenager che si ribella alle regole ma anch’essa coinvolge lo spettatore parlandogli direttamente (qua non c’è però solo lo sguardo in macchina alla Fleabag, ma una voce narrante continua).

In questo manifesto di women empowerment in salsa medievale il twist in commedia per quanto simpatico e accattivante si sgonfia però presto in situazioni identiche e dinamiche ripetitive, mentre il personaggio della Ramsey prova disperatamente a rendersi simpatico risultando invece fastidioso e incapace di trovare la serie complicità che cerca.

Lena Dunham nella sua produzione audiovisiva (dalla serie Girls) ha urlato fin da subito che l’ironia e la sguaiatezza sono la sua cifra per parlare di donne e femminilità alternative, proponendo ritratti sfaccettati ma comunque sempre capaci di empatia. Catherine è invece incapace di farsi capire da chi guarda, e nonostante ci ricopra di pensieri e parole non riesce a fare sua quella cifra che Dunham sembra spingerle dentro a forza.

Catherine, detta Birdy, ha quattordici anni ed è un’artistocratica dell’Inghilterra medievale. Suo padre (Andrew Scott) la definisce un maschiaccio ma ha bisogno di farla maritare perché ha sperperato tutti gli averi. Un po’ come la principessa Beanie di Encanto, Catherine però ama molto di più scorrazzare con i popolani e rotolarsi nel fango e per questo renderà la vita del padre un inferno. Obbligata a scrivere un diario al fratello monaco pur di non fare le attività domestiche, Catherine ci porta così dentro un anno della sua vita di ribelle, mostrandoci il suo percorso di crescita adolescenziale e di ricerca identitaria.

Se solitamente Dunham riusciva a imprimere letture sociali e politiche sul ruolo della donna attraverso le mere dinamiche della storia e il carattere dei personaggi (con ciò che gli succede e come reagisce a ciò che gli succede), in Catherine questo continuo urlare sfrontato del proprio dissenso è fin troppo diretto, retorico, mentre la storia si fa via via meno appassionante e più prevedibile.

Come ha fatto anche Susanna Nicchiarelli in Miss Marx e Chiara, Dunham cerca innesti di cultura contemporanea in mondi più antichi, costruendo situazioni verosimili ma nel dettaglio paradossali (nell’Inghilterra medievale le dinamiche familiari erano decisamente più formalizzate, per usare un eufemismo), per esempio ricorrendo alla musica pop per commentare le scene. Questo parallelismo tra passato e presente nel tentativo di essere un manifesto universale è però fiacco e insufficiente: Dunham, persa a scrivere questo manifesto attraverso le parole, perde per strada l’intenzione di lavorare sul linguaggio cinematografico.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Catherine? Scrivetelo nei commenti!

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