Castle Rock (seconda stagione): la recensione
Appoggiandosi ad una magnetica Lizzy Caplan, Castle Rock costruisce una buona seconda stagione, sempre carica di riferimenti a Stephen King
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Lizzy Caplan è eccezionale nel ruolo di Annie Wilkes ed è la spina dorsale della seconda stagione di Castle Rock. Andare a toccare l'origine di un personaggio così affascinante, ma anche così visceralmente legato all'interpretazione di Kathy Bates nella trasposizione cinematografica, rappresentava una grande sfida. Nell'immaginario collettivo, l'universo kinghiano ha condiviso spesso la rappresentazione cartacea – che è soggettiva – e quella cinematografica. Da Shining a Carrie, le versioni più note delle inquietudine dello scrittore, semplicemente, non possono essere ignorate. Vivono una vita propria, e si sovrappongono idealmente al personaggio della pagina scritta.
La storia è quella di Annie Wilkes, che cambiando alias e targhe della macchina arriva nella cittadina di Castle Rock insieme alla figlia Joy. Qui combatte contro i propri demoni personali, contro un'instabilità mentale che già si manifesta in tutta la sua forza, mentre tiene praticamente segregata la figlia e cerca di sistemare il necessario per ripartire. Ma Castle Rock rimane la cittadina immaginaria al crocevia dei luoghi dell'orrore di King. I cartelli stradali ci raccontano la vicinanza con Jerusalem's Lot, ma anche con Derry, e i riferimenti all'orrore fioccano ovunque.
La seconda stagione della serie non riesce del tutto a fondere due storie: quella più piccola di Annie e quella più grande di Castle Rock. Il tono drammatico e più intimo della prima è talvolta disinnescato da una minaccia sovrannaturale di ben altra fattura, forse più grossolana, ma che comunque toglie forza alla storia di Annie e al suo rapporto malsano con la figlia. Qual è la vera minaccia? Dove dovremmo porre lo sguardo? Annie è un mostro spaventoso nel momento in cui la sua storia si svolge praticamente solo in una camera da letto in cui è legato uno scrittore, ma non è così angosciante se intorno a lei si scatenano forze sovrannaturali.
D'altra parte, con alcuni accorgimenti di scrittura, la serie riesce a dividere quando può il racconto in blocchi separati. Lo fa anche sfruttando flashback che mantengono intatta la loro portata drammatica. E poi c'è Lizzy Caplan che, come detto, è la spina dorsale della stagione. C'è un lavoro di sguardi e postura, abbigliamento perfino, che trascende ogni momento e concentra su di sé l'attenzione. A dimostrazione che il piccolo orrore umano radicato nella verosimiglianza è più spaventoso di quello sovrannaturale.
Alla seconda stagione – chissà se ce ne sarà una terza – le intenzioni della serie antologica non sono del tutto chiare. C'è un disegno più ampio comunque, come ci dimostra un buon collegamento con la prima stagione.