La casa tra le onde, la recensione

Una pioggia torrenziale fa piombare su dei bambini un oceano che sommerge il palazzo abbandonato in cui stanno. Ma è tutta una metafora

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di La casa tra le onde, il film d'animazione giapponese in uscita il 16 settembre su Netflix

L’animazione giapponese degli ultimi 10 anni trabocca d’acqua. Non che il mare sia mai mancato al cinema come in tv, ma adesso è proprio l’azzurro delle onde, la pervasività dell’acqua e in sé proprio l’elemento marittimo al di fuori delle sue solite connotazioni (non le spiagge ma l’acqua nelle città, le grandi piogge, l’acqua nei ricordi…) diventa uno strumento narrativo (e soprattutto visivo) di frequente. L’animazione azzurra è ovunque (pure il più noto di tutti, Makoto Shinkai, nei suoi film gioca moltissimo con l’azzurro dell’acqua e del cielo, pure Masaaki Yuasa sa di non poter scappare dai film acquatici). Così ora l’enfant prodige dell’animazione Hiroyasu Ishida, dopo Penguin Highway, realizza un film tutto su onde, correnti e mari della memoria che sommergono tutto.

L’attacco di La casa tra le onde con i bambini che percorrono una città in demolizione e il tempo che si riavvolge al loro avanzare, andando indietro a quando invece quel centro era vivo, abitato e pieno di persone, è la parte migliore del film. Sembra la classica transizione tramite montaggio in cui con il tempo un posto si popola, solo che funziona al contrario: mentre i protagonisti avanzano il tempo indietreggia e invece di viaggiare verso l’origine e quindi la diminuzione, il viaggio delle immagini verso il passato è uno spostamento verso la ricchezza e la vitalità. È solo una specie di sigla/introduzione ma racconta tutto quel che c’è da dire su La casa tra le onde.

In seguito seguiremo un gruppo di bambini che nell’esplorare uno di questi palazzi abbandonati e prossimo alla demolizione si ritrova di colpo in un oceano. L’acqua sommerge tutto e i palazzoni vuoti sono trasportati dalla corrente, sono soli in mezzo ad un mare metaforico. Dovranno adattarsi, lottare, rimanere uniti, affrontare paure ed esplorare questo oceano per capire come tornare a casa, e ovviamente anche esplorare questo palazzo dentro al quale sono alla deriva. Ovviamente sarà anche un viaggio indietro per loro, che in quel palazzo ci avevano vissuto, anche se un po’ fa sorridere che un film sulla memoria abbia come protagonisti dei bambini, che di cose da ricordare dietro di sé non è che ne abbiano molte. 

Più interessante è semmai la maniera in cui una storia di bambini è un espediente per rivedere alcune dinamiche di gender che intrappolano i bambini maschi, sotto pressione per incarnare certe tipologie umane e in dovere di avere alcune reazioni (soprattutto nella tradizionale società giapponese). Specialmente perché poi il film sente nella seconda parte quasi l’esigenza di trovare un po’ di azione e così un senso, trasformandosi e adottando quasi uno svolgimento da film di pirati. Nulla di tutto ciò però è davvero a fuoco, non l’azione, di certo non il discorso sulla memoria e per niente anche l’allegoria fantastica.

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