Caro Evan Hansen, la recensione
Tratto dall'omonimo musical, una storia che al cinema è sempre stata una commedia diventa una tragedia di ordinaria umanità
Non capita di rado di poter dire che un film che racconta una storia da 90 minuti in 137 fa bene a farlo. Caro Evan Hansen adatta l’omonimo musical, ma contrariamente a quel che i musical adattati per il cinema ci hanno abituato non è una storia di canti e balli solari e pieni di sorrisi. Nonostante, a suo modo, sia un inno alla vita, che è ciò che la narrazione sembra sempre chiedere alla musica, questo musical è un melodramma che non ha paura di essere un melodramma, che vuole affondare le mani nei problemi dei personaggi e che lo fa più che altro sovrapponendo ad un soggetto ottimo un lavoro fuori dal comune sulla recitazione.
Dunque c’è una madre in cerca disperata di una luce (grandissima Amy Adams), una sorella pacificata con il disprezzo per questo fratello morto e un protagonista in disperato bisogno di approvazione. Addosso a loro si abbatte l’intreccio con le sue conseguenze giganti.
Tutto in Caro Evan Hansen potrebbe prendere tranquillamente la piega della commedia, perché la sua struttura è esattamente quella della commedia adolescenziale. Su questa, il film sceglie di costruire invece una riflessione sui dolori e senza tirare indietro la mano. Il dolore di Evan, della famiglia che ha perso un figlio, di una sorella che non lo capisce e della madre single e povera di Evan di fronte all’accaduto. Solo quello sembra contare. Il dolore individuale in uno scavo fino alle profondità più recondite.
Lungo tutto il film c’è un odio per le persone, non prese singolarmente ma nel loro insieme, e un disprezzo per i meccanismi attraverso i quali queste cambiano orientamento solo per non sembrare insensibili che far sembrare che un lutto consenta di modificare quel che è successo senza limiti e con l’approvazione di tutti.
Ovviamente in Caro Evan Hansen c’è la musica (scritte da Benj Pasek e Justin Paul) e la maniera in cui Ben Platt interpreta i brani vince ogni partita. C’è, in questo lavoro di messa in scena e interpretazione, il segreto di come sia possibile estrarre dal profondo, come con una sonda, dei sentimenti che riconosciamo come quelli più appropriati per la situazione ma con una tonalità drammatica superiore al solito, amplificata e non attutita dalle armonie.
Addirittura Chbosky sa anche arrivare (verso la fine) ad un’immagine chiave, sincretica, quella di Evan irrealmente guardato dalla scuola intera (nel mondo reale) dopo uno scandalo (nel mondo virtuale) ma intento ad altro, con l’attenzione non più sugli altri ma sui propri consumi culturali. Quelli che fino a poco prima lo avevano separato con dolore dal resto delle persone con cui desiderava entrare in contatto.