Carlos - Il viaggio di Santana, la recensione

La carriera di Carlos Santana è ricostruita da Carlos Santana in un viaggio breve e sommario con poco riguardo per la musica

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione del documentario su Carlos Santana, in sala il 25, 26 e 27 settembre

Non c’è una vera idea musicale al centro di Carlos - Il viaggio di Santana, che della musica quasi non sa che farsene. Come non ce n’è una molto originale di documentario. È la storia della carriera di Carlos Santana, raccontata da Carlos Santana e percorsa molto in fretta. Essendo lui stesso il narratore l’operazione non è esattamente una storia obiettiva ma anzi totalmente soggettiva. Cosa provava Santana sul palco di Woodstock? Cosa lo ha spinto a fare un disco come Caravanserai? Come si è sentito ad essere celebrato con il disco Supernatural? Una che ha il grande pregio di poter contare su un materiale d’epoca abbastanza originale o quantomeno poco visto (almeno quello dei primi anni di carriera), ma senza esagerare. Senza esagerare in niente.

È più facile dire cosa Carlos - Il viaggio di Santana non sia. Non è di certo un documentario di nuova generazione, di quelli che mescolano strategie del cinema di finzione con messa in scena classica. Non è un documentario investigativo. Non è un documentario con uno stile narrativo audace (come è stato Moonage Daydream per esempio). Non è un documentario appassionato. Non è un documentario realmente musicale. I brani ci sono ma sono sempre sottofondi, sono sempre le versioni più note, quelle dei dischi, e sempre in secondo piano rispetto ai racconti. In pochi momenti si parla della musica, più spesso si parla degli eventi e dei fatti.

Quelli, i racconti, sono spesso attraenti e sembra di vedere e ascoltare la sbobinatura di un’ottima intervista. Cosa che poi il documentario in parte è. Il lato su cui fallisce totalmente è quello visivo e di concezione. Non solo non riesce a concepire una maniera per farci guardare diversamente Santana, ma non ha nemmeno una sua idea originale sull’immagine di Santana (che brevemente vediamo in estratti televisivi e fotografici lungo tutti gli anni di attività cambiare look e atteggiamento). Pur non avendo nel suo caso l’immagine la centralità che ha per altri, è pur vero che i suoi dischi hanno sempre avuto invece un’estetica chiara. Un universo visivo che Santana ha fatto suo nel tempo esiste. Il documentario sembra ignorarlo però. E se spesso questi documentari hanno il problema di sembrare troppo il lavoro di un fan, questo è ancora peggio perché è troppo il lavoro di un dipendente.

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