Caravaggio vol. 1: La tavolozza e la spada, la recensione

Abbiamo recensito per voi Caravaggio vol. 1: La tavolozza e la spada di Milo Manara, edito da Panini 9L

Classe 1971, ha iniziato a guardare i fumetti prima di leggerli. Ora è un lettore onnivoro anche se predilige fumetto italiano e manga. Scrive in terza persona non per arroganza ma sembrare serio.


Condividi

Dalla pagina iniziale che ci si spalanca davanti, aprendo Caravaggio vol. 1: La tavolozza e la spada, si capisce subito di trovarsi di fronte a qualcosa di insolito, di egregiamente insolito. Due vignette la compongono, una splendida veduta del Ponte Salario, tratta da una stampa di Giambattista Piranesi e un carro con buoi che potrebbe fare da manifesto alla pittura rurale degli ultimi quattro secoli. Introducono il soggiorno di Michelangelo Merisi a Roma, la prima delle due parti in cui è divisa la graphic novel con cui Milo Manara ha voluto rendere omaggio a uno dei suoi miti verso il quale ha sempre nutrito una viscerale passione, tanto da scrivergli un'affettuosa lettera aperta, raccolta nel cartonato.

È il 1952. Caravaggio, entrando nei confini capitolini, incontra due sue future modelle, le prostitute Fillide Melandroni, e Anna Bianchini detta “Annuccia”, quasi la coprotagonista del fumetto a cui il suo autore dedica il volume. Il pittore si distingue subito per il suo carattere forte e impetuoso, avverso a ogni sopruso. Salva un vecchio dalle angherie di due sgherri di Ranuccio Tommasoni, un prepotente che segnerà il suo destino nell'Urbe. Il suo altruismo gli vale una bevuta nell'osteria che viene segnalata nelle varie cronache di allora come quella del Turchetto, un luogo frequentato soprattutto dalle classi più umili, dalla malavita e anche da membri dei ceti più agiati ma dalla condotta tutt'altro che irreprensibile.

Qui conosce e stringe un'amicizia sincera con l'architetto Onorio Longhi, personaggio di spicco della cultura locale, ma incline come Caravaggio a frequentazioni poco raccomandabili. Quest'ultimo comincia a farsi notare per la sua abilità e arriva presto a lavorare nella bottega dello stimato Cavalier d'Arpino, incapace tuttavia, di comprenderne lo straordinario talento.

Nell'arco di qualche anno giunge alla corte del suo primo, autentico mecenate, il cardinale Francesco Maria Del Monte, esponente del clero colto e illuminato. Aveva già assaggiato in precedenza il carcere di Tor di Nona, dove ritrova Annuccia e fa in modo di liberarla. Presso il prelato, curatore degli affari del Granduca di Toscana, può dar sfogo a tutto il suo estro, passando dalle piccole tele destinate a una cerchia ristretta di intenditori ai dipinti di grande formato e carattere sacro, come Giuditta e Oloferne o il ciclo sull'evangelista Matteo per la Cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi, a cui appartengono i due capolavori della Vocazione e del Martirio di San Matteo.

I suoi modelli sono per la maggioranza persone di strada, dove spicca la sua preferita, Anna, dalla folta chioma rossa, per il quale nutre un sentimento speciale. Questo acuisce il suo conflitto con il Tommasoni, protettore della ragazza. Da questo sventurato intreccio scaturiscono i due eventi più importanti della sua permanenza romana: uno dei più rivoluzionari e scandalosi gioielli della pittura moderna, La morte della Vergine e il tragico incidente che lo costringe ad abbandonare la sede papale.

Positività e negatività, Bene e Male, luce e ombra, sono i due opposti che costituiscono l'uomo e l'artista, in lotta perenne nel suo animo, che straziano ed elevano, firmandone la fortuna e la condanna. Questo messaggio è colto e trasmesso a pieno dall'opera di Manara con poesia e realismo. La trama è rispettosa della testimonianza delle fonti e rivela una ricerca e una documentazione impressionanti, ma l'abilità narrativa che la contraddistingue, la trasforma immediatamente in una vicenda assai fruibile e coinvolgente.

Le superbe illustrazioni ci portano nella Roma di fine '600, tra i suoi fasti e la sua fatiscenza. La sapiente sceneggiatura ci restituisce uomini e donne in carne, ossa e sangue, spazzando via la polvere di oltre 300 anni di storia. Contribuisce a questo effetto anche il dialogo, fluido, spontaneo, moderno e non esente dal turpiloquio che non stona e aggiunge realismo a un'ambientazione lo ricordiamo, collocata per lo più tra i bassifondi e i vicoli del quartiere Ortaccio, un vero e proprio ghetto riservato alle meretrici e voluto da Pio V nel 1569.

Non mancano ovviamente le scene di nudo e la sensualità unica che i corpi femminili di Manara sanno sprigionare. Ma ciò che rimane al lettore chiudendo il libro, è un affresco ammaliante dell'epoca e una languida e al contempo potente immagine del genio milanese, incarnazione irresistibile di eroe romantico e maledetto, ritratto non a caso, con le fattezze di Andrea Pazienza.

Continua a leggere su BadTaste