Cannes68 - Macbeth, la recensione

Il mito eterno di Macbeth, re per profezia consumato dalla propria bramosia diventa un delirio di colori troppo spostato sulla recitazione

Critico e giornalista cinematografico


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C'è il sangue, le grida, l'odio, la furia e la tensione, Hollywood ce lo ripete da anni che Shakespeare è un autore di blockbuster. Ad ogni nuova iterazione dei suoi classici cerca maniere inedite di modernizzarlo e adattare quelle che sono le dinamiche alla base di molto cinema moderno di grande incasso, mantenendo intatta anche una parte di dell'anima originale e fuori dal tempo.

Orson Welles, Kurosawa (con Trono di Sangue) avevano però lavorato come ha fatto Justin Kurzel sulla fedeltà alla parola e l'infedeltà al teatro. Il suo Macbeth è un frullato di Valhalla Rising (l'epica autoriale moderna) e dei kolossal di Ridley Scott da cui mutua le ambientazioni e l'inserimento di una dimensione mistica (le apparizioni dei demoni), ha i colori estremi di Refn che flirtano con i fumetti (un attimo in più di color correction o computer grafica e tra le fonti di ispirazione per l'estetica avremmo potuto citare 300) e il titanismo necessario a tenere entrambi i piedi nella tragedia del sangue.

A costituire la parte carnale e bastarda di questa storia di follia e perdizione sono gli attori, che nelle trasposizioni shakespeariane di Hollywood diventano sempre lo strumento principale usato per caricare il classico di modernità attraverso l'impossibile lavoro da farsi sulla parola. Come già detto questa volta il lavoro è ancora più difficile perchè Kurzel sceglie di usare il testo originale, intatto, l'inglese arcaico (subito operatico alle orecchie moderne), astratto e svincolato da ogni prossimità allo spettatore. Anche per questo motivo una volta tanto la visione in lingua originale non è propriamente un vantaggio, ancor più distante rispetto a quanto non lo sarebbe comunque stato, Macbeth diventa un lungo grido di colori e violenza. Il che non è mai male ma in questo caso finisce per sacrificare la perdizione del protagonista e della sua moglie.

Perchè a bilanciare tutto dovrebbero essere Fassbender (forse il fisico più adatto a Macbeth visto fino ad oggi al cinema) e Marion Cotillard che hanno una centralità dolorosissima, incaricati di recitare in armonia con l'espressionismo della messa in scena. Eppure non sembrano in grado di tenere sulle spalle tanto peso, di essere capaci di catalizzare lo sguardo e raccontare con il solo movimento ciò che nelle intenzioni del regista si capisce dovrebbe andare anche oltre le parole.

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