Cannes68 - Macbeth, la recensione
Il mito eterno di Macbeth, re per profezia consumato dalla propria bramosia diventa un delirio di colori troppo spostato sulla recitazione
Nè Orson Welles, nè Kurosawa (con Trono di Sangue) avevano però lavorato come ha fatto Justin Kurzel sulla fedeltà alla parola e l'infedeltà al teatro. Il suo Macbeth è un frullato di Valhalla Rising (l'epica autoriale moderna) e dei kolossal di Ridley Scott da cui mutua le ambientazioni e l'inserimento di una dimensione mistica (le apparizioni dei demoni), ha i colori estremi di Refn che flirtano con i fumetti (un attimo in più di color correction o computer grafica e tra le fonti di ispirazione per l'estetica avremmo potuto citare 300) e il titanismo necessario a tenere entrambi i piedi nella tragedia del sangue.
Perchè a bilanciare tutto dovrebbero essere Fassbender (forse il fisico più adatto a Macbeth visto fino ad oggi al cinema) e Marion Cotillard che hanno una centralità dolorosissima, incaricati di recitare in armonia con l'espressionismo della messa in scena. Eppure non sembrano in grado di tenere sulle spalle tanto peso, di essere capaci di catalizzare lo sguardo e raccontare con il solo movimento ciò che nelle intenzioni del regista si capisce dovrebbe andare anche oltre le parole.