[Cannes] Amour, la recensione
Michael Haneke torna in concorso con una storia meno potente delle altre volte e incentrata sul sacrificio quasi disumano...
Questa volta Michae Haneke spara basso ma comunque non manca il bersaglio, Amour è quello che lui voleva che fosse.
Non succede davvero nulla stavolta. Tolto lo spunto iniziale, cioè l'arrivare della progressiva disabilità, il resto del film è un peggiorare delle condizioni lento ed inesorabile e una cronaca episodica di quotidiane fatiche e compromessi per non ospedalizzare (sarebbe inutile) e non mandare in una casa di riposo la moglie.
Con il sadismo verso i propri personaggi (che poi è sadismo verso lo spettatore che si identifica in essi) che lo contraddistingue, Haneke cerca di far esperire a tutti quell'esperienza di estrema dedizione tramite immagini spesso perfette (lo stanzino in cui il marito si trasferisce per lasciare alla moglie il letto è il simbolo stesso del sacrificarsi, l'affaticata lentezza con cui si muove Trintignan sa essere più esasperante delle urla della malata) e come si conviene negli ultimissimi minuti tira le fila di tutto, senza negarsi un paio di scene madri che tirano fuori la lacrima.
Nonostante quindi anche stavolta il teorema filmico di Haneke sia perfetto, rimane l'idea di un film dalle aspirazioni e dai risultati inferiori rispetto al passato. Senza sconfinare nel territorio sentimentale puro di Mike Leigh, Amour bazzica dalle parti di Another Year, senza averne la potenza; mostra una figura retta indefessa, senza mai calarla in contesti che mettano alla prova le sue convinzioni ma testandone solo la tenacia.
E' insomma un film di resistenza Amour, più che di amore vero e non è detto che, in questo senso, il titolo non stia lì a mettere in dubbio la spinta che muove il protagonista.