Cannes 72 - Il lago delle oche selvatiche, la recensione

Il più incredibile dei mondi nella più cinematografica delle storie, The Wild Goose Lake è un film che racconta il suo sfondo e stupisce sempre, ad ogni scena

Critico e giornalista cinematografico


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Il cinema asiatico è l’unico ad oggi che abbia ancora quella forza giovanile di creare con regolarità immagini memorabili che sintetizzino la società (loro ma in fondo anche nostra), la condizione umana e gli abissi che siamo capaci di creare. Quella sfrontatezza da cinema italiano anni ‘40 o americano anni ‘70 tra genere e autore, fascino e capacità di leggere in una storia ben più che la sola trama, sono loro ad oggi gli unici a padroneggiarla così tanto da infonderla nei film medi come quelli alti.

The Wild Goose Lake si apre con un’incredibile convention di criminali da poco tenuta nello scantinato di un hotel, prima una relazione tecnica su come si manomettono gli allarmi dei motorini e poi una “slide” che in realtà è solo una mappa della città per dividersi le strade. Scatterà una rissa e come molti momenti d’azione del film sarà raccontata per ellissi, solo i colpi subìti e gli spari, come se il movimento non fosse importante.
Lo stesso accadrà ai poliziotti, aggregati umano per nulla diverso dai criminali, che si ammantano di professionalità per sfuggire allo schifo del proprio mondo. Tuttavia i primi ei secondi riescono solo ad essere ridicoli nel recitare un’identità che non padroneggiano.

Ci sarà una nottata terribile di vendette tra bande nella pioggia e sui motorini (quasi una versione calda di quella scena mostruosa della moto rubata nella neve di Fuochi d’Artificio in Pieno Giorno) e un errore che costerà caro al protagonista. A quel punto il film (fin lì raccontato in flashback) trasporta i suoi personaggi nel tipico “luogo assurdo” da Diao Yinan, una zona lacustre in cui la legge è assente e avviene di tutto, in cui la prostituzione è inarrestabile perché avviene sulle barchette nel lago e addirittura anche la casa degli specchi da parco attrazioni è di una miseria sconfortante. In questo posto i due protagonisti, individui più soli che mai con il mondo contro, si cercano e aspirano a scappare insieme. Alle volte sembra però che cerchino in realtà di perdersi nella massa e scomparire nelle strade tra quell’umanità di sfondo a cui il film tiene tantissimo. In un film in cui tutti si inseguono senza trovarsi ancora una volta si percepisce l’incredibile fatica e ingiustizia di vivere nei posti ritratti.

Diao Yinan è un autore da un film ogni 5 anni che costruisce i suoi mondi per fare in modo che lo spettatore si chieda dove sia finito e cosa sia successo lì per finire in quel gorgo di miseria abietta. Uno che in una scena importante si lascia distrarre dal fatto che qualcuno se ne frega e intanto butta la spazzatura in una buca in mezzo alla strada, senza ritegno per niente. Non è solo una questione di condizioni atmosferiche sempre infami e paesaggi in cui le idee di assurdità potrebbero non finire mai (solo alla fine nella chiusa del film, una volta terminata la trama, la fotografia cambia completamente e diventa naturalista, gli ambienti sono quasi normali e pare essere finito il tocco di genere), è soprattutto l’umanità che popola lo sfondo a sconvolgere in una quantità infinita di azioni minuscole, ordinarie e orrende. Diao Yinan è ovviamente innamorato degli esseri umani solo che in loro apprezza le piccole esistenze infami.
In uno dei momenti più passeggeri, meno clamorosi eppure sconfortante, il protagonista manderà la donna che ha cercato e con cui vuole fuggire a parlamentare per lui e nella sua assenza prenderà la ciotola da cui lei mangiando un pasto a lungo bramato e comincerà a mangiare anche da lì, senza sentimenti, senza enfasi, solo sopraffazione anche di un proprio caro.

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