Cannes 72 - Rocketman, la recensione

Il biopic su Elton John racconta più che altro le sue dipendenze, da dove venissero e come ne sia uscito. così Rocketman non è l'epica della nascita di una star ma il racconto di cosa può fare la fama

Critico e giornalista cinematografico


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La storia che Rocketman racconta è per poco tempo quella di come Reginald Dwight sia diventato Elton John e per molto tempo quella di come Elton John sia caduto e poi uscito da diverse dipendenze. Con una certa onestà il film lo dichiara nella prima scena, in una riunione di alcolisti anonimi.

Anche quando si tuffa nel passato dei primi anni a casa, del contatto con il pianoforte, delle prime band, della formazione e dell’incontro con Bernie Taupin il film lo fa con il senno di poi per trovare ragioni (che nei casi peggiori un po’ sembrano scuse) per le dipendenze e il vortice in cui il protagonista cadrà. Non è una sorpresa questo tono di parte, il film viene da Elton John stesso ed è una caratteristica che va accettata, altrimenti si rischia di non entrarci mai dentro.

Rocketman non vuole assolutamente essere diverso dal solito, gli vanno molto bene i soliti ruoli nelle solite situazioni, anzi proprio si diverte a imitare i film come li conosciamo per far in modo che la vita di Elton John rientri in quelle categorie e in quella cornice. L’epica che vuole costruire è proprio quella del cinema, far entrare il suo protagonista letteralmente dentro un film. Non manca nessun passaggio classico dei biografici musicali (incluso l’immancabile momento in cui gli viene detto che quelle che saranno le sue canzoni più note non funzioneranno mai!) e il racconto degli eccessi fatto piangendo e urlando.

E se la scrittura non cerca mai l’eccezionalità è anche perché il punto del film è evidentemente altrove, sta nei numeri musicali, nei costumi (moltissimo) e nelle coreografie. Il grandissimo contrasto tra le paillettes e i lustrini che gridano felicità, rock e fama e il declino di un uomo allo sbando, solo e distrutto da droga e alcol è ottenuto proprio con gli abiti, con la sua immagine pubblica così assurda, paradossale ed eccessiva (la scena presente del trailer di Elton sul palco con il costume pieno di colori e le braccia alzate in segno di trionfo è la più diretta ma obiettivamente anche la migliore). E questo è un traguardo, uno che nei momenti migliori del film offusca il fatto che le canzoni sono riarrangiate nello stile della musica da musical (la playlist è fatta bene però, ci sono tutte quelle che ci devono essere) levandogli a tratti un po’ della loro forza, che evidentemente sta molto negli arrangiamenti di Elton John.

E proprio qui, nella musica, Rocketman mostra quelle scelte audaci che non fa nella scrittura, mostra di aver realmente lavorato sull’idea mettere in scena musica e spettacolo. La scelta più pauperista, pavida e un po’ semplicistica di film come Bohemian Rhapsody di mettere le canzoni famose per come sono, originali e senza toccarle, solo appiccicandole, garantisce un risultato e il gradimento di qualunque spettatore sia entrato a vedere il film, qui questo risultato invece non è garantito per tutti i brani.

Certo Rocketman al netto di momenti davvero ottimi (la parte di I Want Love ricalcata sul noto videoclip con Robert Downey Jr. di cui Elton John notoriamente va pazzo è fantastica) non è estraneo al kitsch e a simbolismi sfacciati in altri (Elton John che parte come un razzo su Rocketman), ma nei pochi momenti in cui gli è chiesto di recitare Taron Egerton funziona davvero, anima onestamente un personaggio eccessivo, e Bryce Dallas Howard forse mette a segno la sua miglior interpretazione nel ruolo della madre.

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