Cannes 72 - Parasite, la recensione

Ironico e tragico, epico e domestico, Parasite è il miglior Bong Joon-ho che gira un film mirabolante e rigoroso su poveri e ricchi

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Alla seconda commedia di fila (la terza in carriera) Bong Joon-ho aggiusta il tiro, la tinge molto più di nero di Okja e realizza forse uno dei suoi film più belli. Di certo il migliore degli ultimi 10 anni.
Ricchi e poveri nella Corea di oggi sono come ricchi e poveri nel medioevo, Parasite lo si potrebbe tranquillamente ambientare 1000 anni fa senza toccare quasi nulla. Storia di inganni e servi astuti, di raggiri scaltri e nere conseguenze per quelli che sembrano essere i più furbi. Parte come una commedia sofisticata, tutta trovate geniali (la casa in cui vive la famiglia povera, la professionalità con cui scroccano il wifi all’inizio), prosegue come un thriller e finisce come una tragedia greca.

I parassiti sono questa famiglia indigente come tante che trova una maniera per fregare una famiglia ricca. Il figlio più grande si fa assumere millantando e falsificando credenziali per dare ripetizioni alla rampolla nella sua casa di design. I soldi sono ottimi e arrivano abbondanti così capisce che forse può far assumere la sorella (non dicendo che è la sorella) per badare al figlio piccolo, può far assumere il padre (non dicendo che è il padre) come autista e la madre (non dicendo che è la madre) come donna delle pulizie. Tutti insieme spillano denaro e gozzovigliano quando i ricchi non ci sono. Ma nello scantinato di questa casa meravigliosa e opulenta si cela qualcosa, un rimosso nascosto.

C’è tutto il cinema di Alex de la Iglesia (sia lo spirito, la voglia di massacrare i personaggi e l’idea che una commedia trae la forza da un look sofisticato e non naturalista) in questa commedia d’interno che ha il ritmo del cinema d’azione ma tutta la capacità riconosciuta a Bong Joon-ho fin da Memories of Murder nel dirigere le singole scene, la sua passione per il gioco costante di primo e secondo piano di ogni inquadratura che si arricchisce potendo sfruttare gli elementi di arredo di una casa ipermoderna (c’è una scala con la quale Bong fa di tutto e usa in mille maniere diverse ad un certo punto salita da uno dei personaggi nello sfondo come fosse un animale).
Il succo è la lotta di classe estremizzata che alimentava anche Snowpiercer ma senza la cornice di genere arrembante, senza troppe distrazioni, con una pregnanza più diretta e soprattutto senza ottimismo!

Ricchi e poveri si muovono e recitano in maniere diverse, sono inquadrati diversamente, sono esseri diversi in mondi diversi. I secondi si mascherano per vivere tra i primi servendoli e a loro viene chiesto di tutto, di essere presentabili dopo un’incredibile nottata di acqua e fognature mentre nei quartieri alti nessuno sembra nemmeno sapere niente di tutto ciò. La sintesi della società coreana è spietata, cattivissima e dura, senza scampo con un finale arrivista che è quasi più drammatico delle premesse.
Stavolta questo cineasta che sa essere barocco quando vuole si fa essenziale, non muove un passo più del necessario e fa il miglior uso di sempre del suo attore feticcio, il grande Song Kang-ho, misurato e preciso come mai capace di partire sottotono e crescere ad ogni minuto di film.
Alla fine, di nuovo, tocca registrare che le immagini più potenti ed eloquenti sul mondo che viviamo oggi vengono dall’Asia. L’idea che le luci di casa che si accendono al passaggio del padrone non siano automatiche ma accese dagli scantinati a capocciate (ma con letizia) è di quelle che non si scordano e rivedono tutta la maniera in cui guardiamo la vita intorno a noi.

Continua a leggere su BadTaste