Cannes 72 - Mektoub: Intermezzo, la recensione

Mektoub: intermezzo si pone tra Canto Uno e il prossimo capitolo senza mandare avanti la trama ma è un vero clamoroso studio sull'attrazione tra corpi

Critico e giornalista cinematografico


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Siamo sempre nell’estate del 1994, quella di Mektoub: Canto Uno, ma a Settembre, ultimi scampoli di mare e vacanza. Al gruppo visto nel primo film si aggiunge nella prima scena Marie, di Parigi, anche lei rimorchiata in spiaggia da Tony, come era avvenuto per Charlotte nell’altro film. Dopo 40 minuti di dialoghi in riva al mare andremo in discoteca dove rimarremo per i restanti 160.

Nonostante l’inizio di Mektoub: Intermezzo possa sembrare l’apice della parola, in realtà è l’apoteosi dell’immagine. Kechiche tiene lo spettatore attaccato allo schermo con un’immensa scena dialogatissima, un profluvio di vocaboli che non porta avanti nessuna trama (tranne un piccolo accenno ad una gravidanza e forse un aborto) e lo fa con la forza delle immagini e della composizione delle sue inquadrature, spesso controluce, che rivelano sempre qualcosa di nuovo. Anche nei piani d’ascolto. Corpi bagnati che si asciugano al sole del tramonto. Volti che si guardano e come sempre si desiderano o cercano di farsi desiderare.

È di nuovo la celebrazione della forza primitiva e brutale della bellezza e della carnalità, la potenza visiva dell’attrazione del corpo e del volto nei confronti dello spettatore che non necessita di altro se non di fisici attraenti osservati nella loro magnificienza. Non c’è più bisogno di esplorare caratteri e personaggi, Intermezzo come dice il titolo stesso è un momento di passaggio, uno studio su come riprendere esseri umani che si guardano perché si vogliono. In questo perde il sentimento di Canto Uno e affatica di più (decisamente non è un film per tutti, più sperimentale per la sua pressochè totale assenza di trama, che convenzionale) ma è più originale unico.

Poi ci sarà il rituale pagano della discoteca, due ore e 40 minuti eccessive da tutte le parti, un’odissea nello sforzo fisico e nell’attrazione, nella conquista (di donne da parte di uomini e di uomini da parte di donne). Perché se il mare è il luogo dell’esposizione, la discoteca è quello dell’esibizione della propria potenza sessuale. Entrambi momenti buoni per attirare l’altro sesso, come se questa fosse la vocazione e al tempo stesso la massima realizzazione del corpo giovane. Nessuno racconta questo con questa decisione, e anche chi ci prova nemmeno si avvicina al clamore e alla precisione con cui ci arriva Kechiche.
In quelle due ore e mezza martellate di musica a battito incostante (sale e scene a seconda dell’aumentare del desiderio dei vari e diversi tentativi di approccio che seguiamo) si passa dal divertimento allo sforzo fisico puro, dal ballo in discoteca al ballo da rito tribale, personaggi esausti ma incapaci di smettere, come animati dal senso del dovere.

Lungo tutto il film scampoli di trama e di intreccio tentano di farsi strada, vengono ritrovati ogni tanto come briciole sparse ad indicare la via. Tony scopre di essere il padre del figlio di cui Ophelie è incinta e non vuole che abortisca, lei chiede ad Amin di portarla a Parigi a farlo, lontano da tutti, Charlotte torna da Nizza e Marie desidera Amin che continua a guardare tutti e agire poco (sempre più dell’altra volta comunque). Lo zio Kamel (il personaggio più incredibile) non smette di seguire i nipoti senza averne l’età ma con una voglia di vivere contagiosa.

In questo film che ha i tempi dilatati di un ricordo (un cunnilingus in bagno occupa la straordinaria durata di 12 minuti), Kechiche anche più che nel precedente cerca di raggiungere l’impossibile obiettivo di viaggiare all’indietro nel tempo con lo sguardo di oggi per trovare tramite i sentimenti di ieri. È un tentativo che passa per le sensazioni, i suoni, la pelle e quei pochi dettagli che rimangono impressi fortissimi anche a 25 anni di distanza.

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