Cannes 72 - Les Miserables, la recensione

Nelle banlieue una giornata caldissima è teatro di uno scontro tra bande e polizia. Les Miserables parte dalle convenzioni del cinema di polizia, le unisce al realismo e raggiunge vette incredibili per un esordio

Critico e giornalista cinematografico


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Prima ancora del pubblico è Les Miserables stesso a sembrare di non aspettare altro che lo scoppio di un colpo nella direzione sbagliata.

Una giornata da 35 gradi centigradi nella polveriera multirazziale delle banlieue francesi, un training day per una recluta non proprio giovanissima di una mini unità speciale che opera con pugno di ferro in quelle strade. Il setting per il primo lungo di Ladj Ly è perfetto e usa il classico espediente di un nuovo arrivato per farci entrare in un mondo attraverso i suoi occhi. Ed è un mondo che suona familiare, quello della mala di quartiere del cinema, fatta di poliziotti violenti, reclute, capi del quartiere arroganti, scugnizzi, informatori, zingari e madri preoccupate in cucina. Perfettamente a metà tra il realismo e le figure del cinema criminale di periferia. Il trucco del film è che stiamo sempre con i poliziotti, partecipiamo ai loro problemi anche se sono i primi a giocare sporchissimo e questo crea una scomoda sensazione.

Les Miserables ha insomma il punto di vista giusto, che è tutto quello che conta in un film di questo tipo, indispensabile sia per evitare la poliziottata con Raoul Bova sia il B movie senza nobiltà. Invece questa storia innescata da un ragazzino che ruba un cucciolo di leone al circo degli zingari, scatenando un possibile putiferio che i poliziotti tentano di risolvere facendo solo più guai, è un viaggio negli stereotipi del genere fluido e ritmato, così piacevole per come combina convenzioni e esecuzione magistrale da lasciare di stucco. Già nelle prime scene introduttive è possibile capire che il passo è quello giusto, già dall’alternarsi dei dialoghi, già da Damien Bonnard e Alexis Manenti, abiti e taglio di capelli giusti. Ladj Ly sa quello che racconta e ha l’occhio per il dettaglio che serve per non sbagliare niente.

Quando poi gli eventi cominciano a stringersi e ognuno dei coinvolti deve affrontare il peso di scelte durissime tra convenienza e principi, lotta e pace, sacrificio e salvezza, Les Miserables sa anche godere del piacere di un gran dialogo, atteso, caricato, studiato e dai tempi dilatati giusti. Questa davvero non sembra l’opera di un esordiente ma quella di un piccolo maestro, che sa manipolare toni e tempi, che conosce l’ambiente che racconta tanto quanto i film del genere che affronta, e ha la furbizia di evitare le trappole insidiose.
Perché ci sono idee politiche forti nel film ma sono nelle immagini. Un’apertura con vere immagini di persone che guardano la Francia vincere finale dell’ultima coppa del mondo e sono tutte di colore e il ruolo dell’Imam che vende kebab sono idee da cineasta.

Una chiusa discutibile che fa discutere cambia un po’ tono al film, gli fa fare un passo nel reame della finzione aperta e cerca di indirizzare in maniera più decisa la lettura del film. Stranamente l’ultima inquadratura, sospesa, si dimostra più pavida del resto del film (invece coraggiosissimo). Ci vuole infatti molto più fegato a prendere posizioni come quella di Spike Lee per il finale di Fa’ la cosa giusta che a lasciare il piede in due staffe come avviene qui. Ma sono dettagli, Les Miserables rimane un esordio fulminante.

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