Cannes 72 - C'era una Volta a... Hollywood, la recensione
Largo, lungo e pieno di godimento per il fare, girare e guardare il cinema, C'Era Una Volta A... Hollywood è Tarantino libero dalla maledizione di "fare" Tarantino
Nota: In seguito a un confronto abbiamo deciso di rimettere mano alla recensione per essere in linea con il desiderio di Tarantino di non entrare nello specifico della storia.
Di tutti i registi che nei decenni hanno celebrato il cinema nei loro film Quentin Tarantino è davvero l’unico che non ne canta la bellezza o l’importanza ma il godimento fisico. La visione per lui ha lo stesso grado di piacere dei vizi e qui si accompagna sempre a dei drink o a del cibo mostrati, raccontati e descritti per bene. Vedere un film fa godere e Tarantino gode nel far godere i suoi personaggi e il pubblico. Non c’è sesso in C’era una Volta a... Hollywood ma i personaggi godono tutti dal primo all’ultimo. Addirittura anche un cane gode nel vedere il cibo che viene preparato per lui e assaporare il momento in cui lo potrà mangiare. È ciò che in ultima analisi racconta questo lungo, largo e compassato film di dialoghi: il piacere di godere ogni minuto di ciò che si ama. E diamine se Tarantino ama l’audiovisivo! Non sono mai stati nominati tanti titoli di serie e film inventati e veri in un suo film.
C’era una Volta a... Hollywood appartiene al “nuovo Tarantino”, quello di The Hateful Eight che relega l’azione propriamente detta a pochi minuti e dilata i dialoghi anche più di quanto non facesse nei primi film, si perde nel racconto del superfluo come fanno Richard Linklater o Abdellatif Kechiche, solo che lo fa con il suo stile, la sua ironia e le sue idee sui rapporti tra esseri umani. Tarantino finalmente libero dalla maledizione di essere Tarantino e dover “fare” Tarantino (come detto lo fa solo nel finale). E lo stesso il risultato è una meraviglia a più livelli, in cui la trama è un orpello.
Questo film è l’Effetto Notte di Tarantino e il suo Ed Wood, il cinema raccontato come mestiere a tutti i livelli dai produttori, ai registi, agli agenti, agli attori, agli stunt (c’è Kurt Russell e c’è Zoe Bell, marito e moglie), fino alle costumiste e anche alle sale (con la cassiera e la maschera), tutto è preso in un unico grande racconto che si svolge dentro a Hollywood vista come un luogo mitologico in cui ogni cosa ha a che vedere con il cinema (del resto la famiglia di Manson si nascondeva su un ex set abbandonato). La prospettiva però è sempre quella del cinema di serie B, la serie A è vicina e lontana al tempo stesso, sta nella villa accanto ma è irraggiungibile per Rick Dalton, che intanto impara le sue battutacce con un registratore a bobine mentre si sbronza in piscina e il giorno dopo sarà bacchettato da un’attrice bambina professionalissima.
Tutto nel mondo di questo film è a tema cinema come in Cars tutto è a tema auto.
Sono elementi da sempre presenti nei film di Tarantino ma qui presi di petto. I suoi personaggi finti si muovono in mezzo a quelli veri, interagiscono e interferiscono con loro e i loro piani (Cliff quasi infortuna Bruce Lee) ma alla sera sono tutti a casa a guardare i medesimi show televisivi. La fruizione culturale di una volta, simultanea e (agli occhi di Tarantino) magica, quella che fa tenere la bocca un po’ aperta a Cliff e Rick mentre guardano Rick stesso recitare nella serie tv FBI.
Periodicamente Tarantino dice che smetterà di fare film, poi in realtà ne annuncia uno nuovo (sappiamo già che potrebbe lavorare a un film di Star Trek). Se questo fosse davvero il suo ultimo film sarebbe il canto del cigno perfetto, un’opera così vasta da coprire tutto il suo mondo (dove recitano tantissimi degli attori con cui ha lavorato) e la sua visione di ciò che adora vedere e fare, cinema di bassi istinti che nessuno canta e che pensa di non contare niente (“Hai mai visto quei western italiani? Fanno schifo!”). Ed è così grande il suo cuore che anche chi guarda se ne innamora ancora di più di quanto già non lo sia.