Cannes 72 - A Hidden Life, la recensione
La vera storia di un disertore raccontata nello stile di Terrence Malick. Ma A Hidden Life alle prese con materia controversa, da discutere, si dimostra spuntato
La storia è vera, quella di Franz Jägerstätter, e inusualmente per il Malick degli ultimi 10 anni è raccontata in maniera lineare. Un disertore non violento che per non giurare fedeltà ad Hitler fu disposto a tutto. 60 minuti per imbastire la sua storia e la sua decisione, altri 60 di prigionia, privazioni e maturazione filosofica nell’avversità, e gli ultimi 60 per la discussione, i processi, i tentativi di fargli cambiare idea mettendo alla prova le sue tesi.
Con la fastidiosa decisione di far parlare i contadini che filosofeggiano in un inglese sporcato di tedesco e direttamente in tedesco senza sottotitoli i dialoghi nello sfondo o che non servono, A Hidden Life è sempre meno interessato agli eventi ma più alle parole e alle immagini. Stavolta messe in scena senza il fido Emmanuel Lubezki ma appoggiandosi al suo operatore Jorg Widmer che tuttavia imita in tutto e per tutto nello stile che il messicano ha creato da The Tree Of Life in poi.
Terrence Malick fa di Franz Jägerstätter un martire ma non riesce a farne un eroe. La sua comprensione del gesto è tale che non sente il bisogno di ragionarci sopra, si limita a mostrarlo. Non mette in crisi, non discute, non vuole mostrarne luci e ombre (nonostante ci faccia vedere bene il dolore e la fatica che comporta per la famiglia), A Hidden Life usa le immagini del suo percorso di coerenza e protesta per poter parlare dei massimi sistemi.
Un cartello finale con una frase riguardo il ruolo nella storia di tutte quelle persone le cui gesta non sono state raccontate e non hanno influito direttamente sugli eventi stimola molto di più e genera più interesse di tutto il resto del film.