Cannes 71 - The Spy Gone North, la recensione

Argo, il western e John Woo tutti insieme per The Spy Gone North e la sua vera storia di spie manovrate dai governi di Nord e Sud Corea

Critico e giornalista cinematografico


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Guerra fredda da Oriente e spionaggio tra mondo libero e mondo comunista nella Corea divisa, The Spy Gone North non solo racconta una storia cui non siamo abituati ma lo fa assecondando principi ed etiche cui non siamo abituati, ed è esattamente la boccata d’aria fresca di cui il genere ha bisogno.

Lo spionaggio infatti ha inevitabilmente a che fare con l’etica, perché prevede bugie, tradimenti e concessione della fiducia, fare amicizia con qualcuno che verrà inevitabilmente tradito. Ideale o sentimenti, fedeltà alle persone o allo stato, sono le dialettiche basilari (gli unici i film di spionaggio in cui l’etica è cancellata sono solo quelli che raccontano di burocrati come La Talpa). Mescolare quest’esigenza alla fiducia spasmodica che il cinema di genere coreano ha ereditato da quello di Hong Kong verso la schiena dritta, è un matrimonio che da anni dà frutti meravigliosi.

Qui tutto nasce da una storia reale opportunamente adattata: negli anni ‘90 i servizi segreti della Corea del Sud diedero ad un agente l’incarico di crearsi una nuova identità da imprenditore, prendere contatti con la Corea del Nord fino a guadagnare la loro fiducia e proporgli un grande affare, girare lì nel Nord pubblicità dei prodotti del Sud. Il guadagno per il Nord è economico e di visibilità, ma il vero obiettivo del Sud è introdurre videocamere e riuscire a filmare i siti in cui, pare, stiano sviluppando testate nucleari. Come in Argo un’operazione commerciale è usata come copertura, ma a differenza dei film occidentali qui il sistema non è buono e nemmeno il comunismo è un vero ideale, sono due facciate convenienti ai potenti di turno, uno vessato da personalismi e l’altro che sogna l’apertura al mercato come la Cina ma è schiacciato da un dittatore temibile (all’epoca Kim Jong-Il, le scene con lui sono le migliori).

The Spy Gone North parte quasi imitando Johnnie To, con dei protagonisti di cui non sappiamo nulla e che non lasciano capire niente di sè, macchine dedite al lavoro e nient’altro, mossi da una volontà di ferro e una convinzione granitica, con i quali empatizziamo giusto nelle scene di tensione. Sono semmai le loro controparti, cioè gli ingannati, che ci vengono raccontate con partecipazione (Lee Sung-Min è fantastico nel ruolo del funzionario comunista che lentamente e a fatica si apre al nuovo partner con crescente affetto sincero).

Nella seconda invece tutto cambia e il film oscilla tra le finalità di John Woo e il tono asciutto da western, tutto idee ed espedienti, coraggio e determinazione, fino ad un finale di pura commozione che capitalizza tutta la freddezza accumulata nel resto del tempo.

Con Pechino a fare da zona franca come la Berlino divisa fa solitamente nei film di guerra fredda occidentali, una rigida etica del doppio e granitici valori che vincono sugli schieramenti tipici del poliziesco di Hong Kong (i personaggi incarnano il proprio lavoro perché poi è proprio quello che dovranno decidere di rinnegare), Yoon Jong-Bin dirige 2 ore e 20 formidabili in cui un uomo dimentica il suo vecchio sé per abbracciarne uno nuovo e, come spesso capita nei film coreani che raccontano della tensione tra Nord e Sud, stringe un’amicizia imprevedibile con i suoi omologhi dall’altra parte della barricata.

The Spy Gone North infatti conferma la struttura di questo sottogenere tutto particolare possibile solo in Corea, cioè il fatto che alla fine il vero villain sia sempre la politica, il sistema che prima unisce i protagonisti, costringendoli a superare le reciproche diffidenze, e poi gli ordina di separarsi quando hanno compreso di non essere diversi come gli hanno sempre detto (impossibile non pensare al bellissimo As One, anch’esso tratto da storia vera).

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