Cannes 71 - The Book Of Images, la recensione
Fieramente se stesso, Godard con The Book Of Images approda alla videoarte, ma quella di 15 anni fa e sembra riuscire solo in quello che non cerca
Il primo dettaglio che salta agli occhi, dovrebbe essere scontato ma come la bellezza delle cose, non lo è mai, è che i tagli che Godard sceglie da film commerciali e d’autore, noti e oscuri, sono meravigliosi, fanno reinnamorare di quell’artificiosa falsità del cinema del novecento, quel senso del fasullo così evidente con gli occhi di oggi e così importante ieri. Ma Godard non vuole mai ragionare su quelle immagini, vuole semmai usarle per costruire altro, il suo non è uno studio su di esse ma una maniera di costruire su di esse. L’obiettivo è parlare di rivoluzioni prima di tutto, sempre da venire, sempre impossibili, sempre necessarie anche se nessuno ne sente più il bisogno, e di mondo arabo poi, passando per i treni (il primo oggetto filmato dai Lumiére che vediamo poi in mille altri film), per l’arte stessa e insistendo sull’operato delle mani. C’è insomma molto (ma potenzialmente anche niente, dipende con che volontà ci si approccia al film) in quest’opera che somiglia più alla videoarte e si fonda sulla ridefinizione di una moltitudine di immagini deformandole come fossero rovinate analogicamente e aggiungendo un’altra colonna audio.
Stretto tra un’abilità che bisognerebbe essere ciechi per non riconoscere nel trovare, riconoscere e valorizzare le parti migliori del cinema e scovare in esse significati nuovi e diversi rispetto a quelli che hanno all’interno dei propri film, Godard è oggi un cineasta bifronte che guarda sempre indietro mentre cerca di guardare avanti. Di conseguenza i suoi film sono opere che compiono un lavoro interessante ma sempre meno necessario, sempre meno significativo e futile, operazioni di archeologia invece che d’arte come desidererebbero.