Cannes 71 - Summer, la recensione
Il momento in cui è nata la scintilla del rock di Leningrado è un'estate (Summer) degli anni '80 in cui tutto quello che all'estero sembrava facile in Russia era un'impresa
Tutto Summer è il racconto più o meno biografico sia della formazione di un artista (Viktor Coj) tramite un altro che lo ha valorizzato, spinto e aiutato (Mike Naumenko) ma anche di un momento e di un posto in cui tutto è trasgressione e in cui chiunque volesse fare del rock libero doveva prendere decisioni non facili. I club in cui suonare, i testi, i sotterfugi, le difficoltà nel reperire dischi e nel registrarli, tutta la fatica che ci viene sempre raccontata fanno gli artisti per emergere diventa, nella Leningrado degli anni ‘80, uno sforzo che pare quasi futile e impossibile. Fare rock lì è roba da eroi e non richiede imprese clamorose ma un lavoro sotterraneo, lento e per nulla eccitante.
La cosa più forte del film è come Serebrennikov identifichi la mancanza di vera libertà, e quindi vera possibilità di essere se stessi, con l’impossibilità per il suo film di procedere come gli altri del medesimo genere che raccontano contesti meno oppressivi. Se il mondo del rock di Leningrado non era quello, per dire, di Londra, anche la forma del film deve adeguarsi. In bianco e nero e rari inserti a colori, Summer contiene una serie di fughe dalla realtà, scene che sarebbero ordinarie in altri film musicali ma che qui possono esistere solo come fantasie. C’è un personaggio deputato a identificare il momento come fasullo che regge un cartello: “Questo non è accaduto” e con il sottofondo di Perfect Day, The Passenger e simili vediamo scene di confronto con l’autorità, sberleffi alle regole, audaci dimostrazioni di indipendenza di pensiero e di libero amore. Tutti sogni impossibili che per negazione raccontano quella realtà.