Cannes 71 - Summer, la recensione

Il momento in cui è nata la scintilla del rock di Leningrado è un'estate (Summer) degli anni '80 in cui tutto quello che all'estero sembrava facile in Russia era un'impresa

Critico e giornalista cinematografico


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Nonostante in Summer musicisti come David Bowie, Lou Reed, i Sex Pistol e Mark Bolan siano riveriti come fari della musica rock, nonostante siano i miti cui tendono i protagonisti e la loro musica sia usata in più occasioni per raccontare il desiderio di libertà e affermazione della propria diversità, alla fine si ha la netta impressione che quel loro ribellismo fosse facile a confronto di quello più mite e controllato ma anche più rischioso dei protagonisti che li ammirano così tanto. Nell’estate del 1981 due eccellenze realmente esistite della scena rock/punk di Leningrado si incontrano e parte la scintilla che farà la storia di quella musica in Russia. Entrambi volevano fare rock in un momento e in un contesto in cui effettivamente poteva costare la vita o il confino.

Tutto Summer è il racconto più o meno biografico sia della formazione di un artista (Viktor Coj) tramite un altro che lo ha valorizzato, spinto e aiutato (Mike Naumenko) ma anche di un momento e di un posto in cui tutto è trasgressione e in cui chiunque volesse fare del rock libero doveva prendere decisioni non facili. I club in cui suonare, i testi, i sotterfugi, le difficoltà nel reperire dischi e nel registrarli, tutta la fatica che ci viene sempre raccontata fanno gli artisti per emergere diventa, nella Leningrado degli anni ‘80, uno sforzo che pare quasi futile e impossibile. Fare rock lì è roba da eroi e non richiede imprese clamorose ma un lavoro sotterraneo, lento e per nulla eccitante.

Summer è uno dei film più rigorosi di un regista che altrove è stato invece magnificamente sregolato. Inquadrato, preciso e purtroppo un po’ troppo lungo là dove non dovrebbe, funziona lo stesso nonostante le sue imperfezioni perché arriva dritto al suo obiettivo: mostrare senza nessuna enfasi la pressione di un sistema su un artista tramite una storia vera deformata senza che si noti (la scena iniziale di alcune ragazze eccitate che entrano di nascosto ad un concerto rock in cui nessuno si alza, nessuno balla e tutti devono rimanere seduti è incredibile, c’è trasporto e fomento nella più totale immobilità).

La cosa più forte del film è come Serebrennikov identifichi la mancanza di vera libertà, e quindi vera possibilità di essere se stessi, con l’impossibilità per il suo film di procedere come gli altri del medesimo genere che raccontano contesti meno oppressivi. Se il mondo del rock di Leningrado non era quello, per dire, di Londra, anche la forma del film deve adeguarsi. In bianco e nero e rari inserti a colori, Summer contiene una serie di fughe dalla realtà, scene che sarebbero ordinarie in altri film musicali ma che qui possono esistere solo come fantasie. C’è un personaggio deputato a identificare il momento come fasullo che regge un cartello: “Questo non è accaduto” e con il sottofondo di Perfect Day, The Passenger e simili vediamo scene di confronto con l’autorità, sberleffi alle regole, audaci dimostrazioni di indipendenza di pensiero e di libero amore. Tutti sogni impossibili che per negazione raccontano quella realtà.

Ovviamente ogni riferimento al presente e al regista stesso (ora agli arresti domiciliari) non è casuale, vista la quotidianità e l’ordinaria difficoltà nel dover mediare per tutto, nel dover attenuare qualsiasi spinta realmente rockettara, nel dover rivedere continuamente le proprie possibilità, la propria autonomia e i propri desideri in base a ciò che è consentito. Come se il vero spirito libertario di quella musica abbia senso solo lì dove concretizzarlo pare impossibile e serve qualcosa, qualunque cosa, per immaginare un mondo diverso.

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