Cannes 71 - Solo: A Star Wars Story, la recensione

Banale e svogliato Solo: A Star Wars Story segna il punto minimo di inventiva della saga di Guerre Stellari

Critico e giornalista cinematografico


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C’è una cosa, tra le molte, che non andrebbe perdonata mai a Solo: A Star Wars Story: aver tirato tutti i possibili remi in barca e non aver osato niente di niente.

I nuovi film di Guerre Stellari targati Disney hanno scatenato pareri discordi e in certi casi anche molto fastidio ma non si può negare che siano stati radicali, innovativi e sempre sorprendenti, in un verso o nell’altro. Solo: A Star Wars Story è film che riduce l’età media del target potenziale sconfinando sotto ai 10 anni, annulla ogni invenzione e si condanna da solo, fin dall’inizio, alla mediocrità. Il risultato sarà un film scorrevole, coerente (non proprio sempre sempre) e senza errori ma totalmente dimenticabile, generato da un manualetto breve del cinema d’avventura invece che da un’intelligenza umana.

Avevamo lasciato gli spin-off di Guerre Stellari al bel Rogue One, dal tono cupo, dotato di una certa aura di mitologia, pieno di morte e fratellanza, capace di creare una rincorsa a posteriori a Episodio IV (idea geniale), con un’eroina donna che non deve essere femminista, solo una protagonista indipendente.

Solo non poteva avere quel tono e non lo ha.

Siamo nel mondo del pistolero spiritoso, un universo di cinema molto maschile in cui si rischia continuamente la morte con toni scanzonati. Dalla sceneggiatura e a tratti dalla recitazione (evidentemente insalvabile nel disastro generale) si capisce che dal film dovrebbe fuoriuscire il piacere di vivere avventure e l’eccitazione di non averne paura ma anzi esserne attratti, con lo sguardo carico di desiderio mentre si dà massima potenza al Millennium Falcon guardando oltre la videocamera (che nel Millenium si piazza sempre sotto al parabrezza). Ma di queste intenzioni rimangono solo indizi da studiosi, tracce da trovare al microscopio in un film che sembra non saper fare mai coincidere quel che vuole essere con quello che è.

Nonostante abbia una serie di grosse scene d’azione molto ben concepite, che coinvolgono un treno magnetico in movimento, un volo dentro una parte di spazio pericolosissima, un inseguimento con mezzi di Terra e una buona dose di scontri corpo a corpo, ognuna di queste è eseguita con correttezza (capiamo cioè cosa succede) ma senza nessuna partecipazione. Basterebbe paragonarle a quella in Il Risveglio della Forza in cui Rey manovra per la prima volta il Millenium per capire come ci si dovrebbe sentire e come non ci si sta sentendo. L’impressione è che chi le dirige non le ami, non le capisca e non colga cosa ci dovrebbe essere di così bello in tutto ciò limitandosi a renderle comprensibili.

E non va meglio sul lato umano. La formazione di una squadra, e soprattutto della ben nota coppia che comprende il protagonista, è così rapida da lasciare interdetti. In un pugno di scene tutti sembrano conoscersi da sempre, intendersi e avere anche un po’ di affetto l’un per l’altro, da che ci erano stati venduti come pericolosi mercenari.

Non è davvero possibile rintracciare la mano di Lord e Miller (estromessi dal progetto durante la lavorazione), che mai in carriera sono stati così sempliciotti. Né è possibile trovare a pieno quella di Ron Howard, regista di sistema, capace di adattarsi a quel che fa ma con un tono classico che gli avrebbe impedito di imporre così male i toni western che dovrebbe avere Han Solo (invece che esserne permeato, il film li mette in evidenza smaccatamente un paio di volte pretendendo che basti).

La Disney sa bene che ha bisogno di personalità per far durare Guerre Stellari a lungo, per non trasformarlo in qualcosa di ordinario ma nell’evento che si presuppone debba essere ogni volta.

Così è impossibile.

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