Cannes 71 - Un affare di famiglia, la recensione

Una famiglia che non è una famiglia, frutto di piccoli rapimenti e crimini si ama meglio di altre, Un affare di famiglia non giudica ma partecipa

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Cannes 71 - Un affare di famiglia, la recensione

Un affare di famiglia è così tranquillo e a suo agio nelle proprie contraddizioni, che si ha l’impressione ci sia stata una furiosa litigata in fase di produzione tra regia e sceneggiatura. Sembra cioè che lo sceneggiatore avesse una certa idea riguardo i personaggi e abbia scritto un film che li condanna per le loro azioni, i loro furti e le loro bugie, mentre il regista, per nulla d’accordo, non potendo toccare la sceneggiatura l’abbia girata con sguardo opposto.

In realtà sceneggiatore e regista coincidono, è sempre Hirokazu Kore-Eda, che non riesce a non guardare i suoi protagonisti con un amore che pare di poter toccare, mentre fanno qualcosa di sbagliato provando i sentimenti più puri. Sono gli ultimi e avremmo disprezzo per loro in qualunque film ma non in Shoplifters, nel regno di Kore-Eda viene imposta una comprensione degli altri che invece di suonare forzata è subito naturale.

Non appena il padre e il figlio che aprono il film rubando nei negozi individuano una bambina maltrattata in una famiglia difficile e la rapiscono con gentilezza, per il suo bene e per il loro affetto, è subito chiaro che le regole che il film vuole seguire non sono le stesse che seguirà la legge. Del resto Kore-Eda non ha nemmeno mai voluto seguire le regole della solita narrazione e anche qui ribalta costantemente gli ordini di importanza degli eventi. Vediamo in pochi secondi passaggi determinanti, come per l’appunto un rapimento o un licenziamento e addirittura altri cruciali vengono saltati. Al contrario poi passiamo quasi tutto il tempo a vivere la realtà quotidiana di questa famiglia in cui non esistono legami di sangue, formata a caso, che conta anche una zia, una mamma e una nonna, tutta chiusa in una casa piccola e caotica di nascosto dal mondo e al di fuori da ogni regola, che tuttavia sembra un vero esempio per tutti.

I fatti dicono qualcosa che i sentimenti negano. Nonostante sia sbagliatissimo tutto quello che fanno i protagonisti, a noi che guardiamo suona stranamente giusto, perché arriviamo ad aderire in toto al loro punto di vista, provando i loro stessi sentimenti per due ore e con la medesima chiarezza con la quale li proveremmo in prima persona. Dopo Still Walking, Ritratto di Famiglia con Tempesta e il bellissimo Little Sister, questo cineasta che sembra fare film solo per il piacere di stare a guardare le persone volersi bene ogni giorno, con una facilità priva di clamore (ordinaria nella vita ma straordinaria al cinema), forse gira il suo film più difficile.

Perché non è un film anarchico Un affare di famiglia. Le regole della nostra società non sono sbagliate, questo Kore-Eda mostra di averlo ben chiaro, eppure tramite la sua arma principale (dialoghi brevi ed incisivi) riesce a mostrare come alle volte le situazioni non siano come è facile immaginare se ci si ferma ai fatti.
Alle volte l’arte conosce verità che alla legge rimarranno per sempre ignote. Questo Un affare di famiglia non lo spiega, lo impone sentimentalmente, finendo per essere un esercizio di comprensione dell’altro dotato di un’emotività così esplosiva, comunicata con tale economia di gesti e parole, che al cinema non si vedeva almeno dal dopoguerra.

Sei d'accordo con la nostra recensione di Un affare di famiglia? Scrivicelo nei commenti

Continua a leggere su BadTaste