Cannes 71 - Mirai, la recensione

Caldo, scombinato, episodico ma in definitiva animato in modi mai visti prima, Mirai è l'ennesimo gioiello di Hosoda

Critico e giornalista cinematografico


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Stavolta la trama è ancora più esile che in Wolf Children e il racconto ancora più spaccato che in The Boy And The Beast. Stavolta Mamoru Hosoda ha affiancato una serie di momenti, scene e assurde fughe fantastiche per raccontare come un bambino di 3 anni elabori l’arrivo di una sorella in casa. I genitori erano prima tutti per lui, ora c’è qualcuno che gli ruba l’affetto e che non gli risponde, non gioca con lui e non fa che lamentarsi.

Nella storia della prima perdita di un amore di qualunque essere umano, il primo trauma per un affetto che si desidera e che scompare di punto in bianco, Mamoru Hosoda vede l’occasione perfetta per realizzare quello che appare come uno studio su come si possa animare un bambino. Tutto il film riguarda la maturazione in Kun dell’idea di essere un fratello maggiore, di iniziare a voler bene ad una sorella minore e rassegnarsi a condividere i propri genitori, ma trattandosi di un bambino di 3 anni non si può far sì che questa maturazione passi dai dialoghi o dalle azioni, deve passare dai piccoli gesti. Deve essere tradita e non comunicata.

Così in Mirai la cura letteralmente maniacale dell’animazione di Kun costituisce il film stesso. Ci saranno delle avventure, ci sarà l’amico cane che si anima (solo per scoprire che ha vissuto il medesimo suo dramma) e l’idea letteralmente geniale purtroppo sottosfruttata della visita della sorella stessa dal futuro, quindi molto più grande di lui, che in preda ad un panico sentimentale da adolescente ordisce un piano per cambiare qualcosa accaduto in quel passato con un bambino di 3 anni che poco capisce ma molto si industria.

Ma alla fine nessuno di questi piccoli intrecci interni alla storia, nessuna di queste fughe nei mondi di fantasia di Kun avrà l’efficacia della maniera in cui esita, corre, si ferma, scende delle scale per lui immense, fa facce o si imbroncia, all’interno di una casa-mondo progettata da un architetto e mostrata con una consapevolezza degli spazi al cinema che impressiona.

Mirai non è il film migliore di Mamoru Hosoda e ripropone molte delle sue idee vincenti senza metterle davvero al servizio di una storia come in passato. Anche la sua caratteristica chiave, cioè che la maggior parte dei personaggi siano le stesse persone in tempi diversi della loro vita, appare qui più una forma d’abitudine che un vero espediente. Come se davvero nulla davvero importasse di più di riuscire ad animare un bambino nell’atto di essere un bambino, cioè di tradire ogni singola emozione con le sue movenze, senza imitare mai un adulto e mettendo in ogni gesto il proprio carattere e la propria età. Il calco è tale e l’espressività dei gesti o delle espressioni sono tali che forse basta anche solo questo.

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