Cannes 71 - Mandy, la recensione

Austero e ricercato ma contemporaneamente anche postmoderno e autoironico, Mandy non fa una buona sintesi delle sue due parti

Critico e giornalista cinematografico


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Diviso in due, con una prima parte densa di un delirio audiovisivo di colori, immaginario metal, sangue e musica elettronica e una seconda più consapevole, ironica e postmoderna, in cui quanto di accumulato fino a quel momento in fatto di austerità e rigore viene sciolto in una serie di risate e ammiccamenti tra il parodistico, il consapevole e il puro Nicolas Cage (genere di espressionismo a sé), Mandy vuole essere tutto: Lynch, Refn e Rodriguez.

Il film di Cosmatos inizia promettendo tantissimo con un bolso Cage che sega via alberi per lavoro e torna a casa in un elicottero che ha il design del furgoncino dell’A-Team, in sottofondo: Starless dei King Crimson. Arriva a casa da una moglie e la loro vita è così dolce e isolata nel bosco che già sappiamo sarà necessariamente sconvolta da una serie di mostri molto umani e poco diabolici, resi tali (scopriremo) da droghe modificate male e con dolo da uno spacciatore incattivito. Non è infatti l’originalità della spunto di vendetta il punto di questo revenge movie che guarda più a Valhalla Rising che ai classici del genere.

Il punto di Mandy è di mettere sullo schermo una sintesi fino ad ora mai così chiara e (a suo modo in fondo coerente) tra l’immaginario delle copertine metal, l’acciaio, il fuoco, il fumo rosso, il sangue, le urla, la disperazione, la droga, il rimosso nero, il gotico e le suggestioni demoniache o cristologiche andate però a male (la miglior definizione di quel che abbiamo visto nella prima metà la dà il protagonista nella seconda: “Jesus freaks”). Se a Refn, che questo territorio ha iniziato ad esplorarlo per primo, interessa solitamente la forza e la sua componente quasi armonica, la sua strana bellezza, a Panos Cosmatos sembra interessare invece una follia dai tratti extraterrestri e che invece è molto terrestre. Gli alieni e i mostri che in realtà sono molto terreni.

Costumi, maschere, scenografie, piramidi, capelli tinti di bianco e sacrifici umani. Più avanza la prima parte di Mandy più si fa forte l’impressione di assistere alla versione filmata dei testi di un album hard core anni ‘80 o ad un episodio particolarmente colorato e violento della quarta stagione di Twin Peaks. Non che il mix non riesca spesso e volentieri (una transizione dal volto dell’assassino a quello della vittima mentre questo parla, tocca un acme di centrata sovrapposizione che il resto del film non troverà più) ma con una seconda parte di tono opposto, che scherza e prende in giro tutto e tutti, arrivando anche a momenti che suonano più forzati in cui sembra che l’ironia e le strizzate d’occhio siano la ragion d’essere di tutto, il film non pare eterogeneo ma indeciso, perché è privo di armonia tra i due toni.

Vorrebbe un po’ tutto Mandy, essere cinema molto autoriale e rarefatto ma poi anche basso e d’exploitation, con Bill Duke che fornisce le armi e Nicolas Cage autorizzato a dare la parte più invasata di sé e capace di forgiarsi da sé nelle fiamme un’ascia dal design violentissimo, da usare senza pietà contro tutti per vendicarsi in un bagno di sangue, è veramente il caso di dirlo, infernale. Ma lo sforzo d’essere sia alto che basso sembra riuscito davvero poco e inficia anche le possibilità di far riuscire bene solo una delle due metà, perché le continue strizzate d’occhio di Cage suonano fasulle tanto quanto le frasi allucinate come: “Lo psicotico annega dove il mistico nuota” sciorinate nella speranza che allunghino la vita delle immagini.

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