Non è facile capire cosa interessasse ad
Alice Rohrwacher nella storia che lei stessa ha scritto di un sempliciotto di campagna dal quoziente intellettivo basso, trasportato con la magia di una favola dal passato al presente. Lazzaro è un contadino degli anni ‘90 che assieme ad altri come lui vive in una realtà ottocentesca, ingannati da una padrona nobile (
Nicoletta Braschi, finalmente in un ruolo perfetto per lei) che li tiene lontani dal mondo all’oscuro di tutto per poterli sfruttare come schiavi e non come lavoratori, volerà per magia nel presente dove troverà le stesse persone questa volta però in città, poveri di una povertà senza regole e paragoni. Sembra infatti che al film interessino le dinamiche di umano sfruttamento, poi invece l’impressione è che si innamori di una marginalità così unica da doverla creare con un artificio di trama e infine pare che siano i comuni ed alterni destini di quelli che una volta erano padroni e schiavi in un mondo che giudica senza aspettare e valutare, ad essere il cuore di tutto.
Coerente solo quando si tratta di mantenere un tono magico e un ecologismo naturalista antiurbano da Nord Italia, che somiglia più a Celentano che a Olmi, Lazzaro Felice non si nega momenti imbarazzanti (la musica, intesa proprio come il suono, che scappa da una Chiesa, con sconcerto delle suore, per stare con i protagonisti) o altri più scontati (Lazzaro, dal quoziente intellettivo basso ma dal gran cuore, si rivela anche idiot savant) per perseguire l’epopea della marginalità, della povertà e di una miseria che non ha mai fine, ingiusta quando i protagonisti sono contadini ma peggiore quando sono sradicati da quella realtà retrodatata che credevano vera.
E forse è proprio questo, il concetto di essere allontanato dalle proprie radici e dal proprio contesto (anche se menzognero), quello che accomuna tutti i personaggi coinvolti (Lazzaro incluso). Diventati delinquenti, gli ex contadini (ma anche gli ex padroni) non sono diversi dalle molte persone che viaggiano, si spostano e cambiano vita non per scelta ma per necessità. Soli, fuori dal proprio mondo, abbandonati e ai margini della società letteralmente, rifugiati accanto ai binari della stazione in una zona abbandonata, si danno al crimine, sono timorosi e odiano con più facilità di quanto non amino. Solo un personaggio si dimostrerà migliore, quello di
Alba Rohrwacher, che come sempre sembra recitare in sottrazione fino a che non sferra un colpo, uno sguardo, un momento che concentra tutto il lavoro fatto in una singola inquadratura e si rivela, di nuovo, l'unica vera attrice italiana di livello internazionale.
Nonostante la miriade di problemi a questo film scombinato e un po’ bambinesco è difficile però volere molto male, anche quando è evidente che la parte migliore della trama è completamente saltata (ci sarebbe tutto un possibile film che si svolge nel momento in cui la marchesa inizia a mentire ai mezzadri, li isola, li spaventa e crea una specie di regno a parte, lontano dalla modernità in cui lei stessa è prigioniera). Alice Rohrwacher infatti condivide con Sofia Coppola una dote che solo loro due nel cinema di oggi hanno: la naturale e spontanea capacità di eccitarsi per qualsiasi donna inquadrino.
Anche quando i protagonisti delle storie sono uomini questa regista dalla sensibilità acutissima non riesce a non rimanere incuriosita da quel che fanno le bambine, affascinata dagli umori delle adolescenti, appassionata alla forza delle adulte e teneramente rispettosa delle anziane. Non si può dire che
Lazzaro Felice sia un film di donne o sulle donne, è un film umanista semmai, eppure anche nelle inquadrature più affollate l’impressione è che i personaggi femminili siano gli unici capaci di catturare l’attenzione, anche solo quando cercano di rimanere impalati, quando corrono alla finestra o ridacchiano di nascosto. Tutto ciò qui non basta a reggere un film intero pieno di problemi, ma bisogna essere ciechi per non accorgersi di che meraviglioso dettaglio sia e pazzi a trascurarlo.