Cannes 71 - Euforia, la recensione

Unendo due opposti come Scamarcio e Mastandrea, Valeria Golino con Euforia dimostra di essere una regista non comune con una sensibilità fantastica per il cinema

Critico e giornalista cinematografico


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Non ha nessuna fretta di consegnare tutte le informazioni agli spettatori Euforia, le tiene per sé a lungo, lascia intuire qualcosa e si diletta a giocare al gatto col topo, raccontando momenti di vita quotidiana proprio quando dovrebbe invece spiegare.
C’è fin dall’inizio una malattia che incombe su uno dei membri della famiglia composta da un fratello dichiaratamente gay, diventato ricco facendo l’imprenditore d’arte a Roma, un altro che invece è rimasto a Nepi a fare l’insegnante a scuola assieme ad una madre sveglia e attiva. Questa malattia attirerà tutti a Roma, in una storia che Valeria Golino, al suo secondo film, sceglie di raccontare lavorando sulle ellissi.

Invece che seguire un flusso siamo presi quindi in una storia che comprime diversi mesi saltando di episodio in episodio, per far vedere come uno dei membri cerchi di tenere nascosto cosa sta davvero accadendo agli altri, per non veder crollare tutto. E proprio in queste ellissi, nei momenti che Valeria Golino sceglie di mostrare o non mostrare, sta il primo segreto di un film riuscitissimo, residente stabilmente nel territorio d’elezione del cinema italiano, quello storicamente dominato dai nostri autori: il dramma raccontato in forma di commedia.

L’impressione vedendo Euforia è che nonostante la tragicità degli eventi il film stia così tanto con i personaggi, così vicino a loro e soprattutto sia così attento a raccontare il loro quotidiano, che naturalmente finisce per mostrare quei momenti in cui dismettono la maschera del tragico, si rilassano e si lasciando andare alla commedia della vita, delle piccole cretinerie e delle tenere battute. Come dice il titolo infatti almeno da un certo punto in poi tutto sarà vissuto con un’euforia apparentemente fuori luogo che viene dai medicinali assunti (grande idea che sia indotta e “falsa” ma che crei un rapporto realissimo), in grado di trasformare il periodo narrato in una insperata riunione di famiglia all’insegna di un’armonia che non c’è mai stata. Così perfetto per il racconto di una famiglia è il tono che quando il film sceglierà di essere un po’ più deciso e lavorare sul drammatico puro (la telefonata finale in macchina) troverà la sua parte più fiacca e canonica.

Non era per nulla facile scommettere su una storia simile, ma ancora meno lo era scommettere su una coppia come Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea, diversi non solo nell’immagine che si portano appresso per i ruoli interpretati in passato ma soprattutto per stile di recitazione. Uno lavora sempre in sottrazione, meno fa meglio recita (Mastandrea), l’altro invece, più classico e dinamico, cerca sempre di animare le inquadrature di movimenti. Che Valeria Golino sia riuscita a creare una chimica d’affetti perfetta, credibile e commovente tra questi due fratelli, lasciando che due personaggi agli opposti siano recitati agli opposti senza che stoni, è testimonianza indubitabile delle sue doti da regista.

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