Cannes 70: How To Talk To Girls At Parties, la recensione
Eccessiva, carnevalesco e autoironico How To Talk To Girls At Parties è fatto più che altro per filmare certi costumi, certi trucchi e certi atteggiamenti
How To Talk To Girls At Parties fornisce da subito la chiara impressione di esistere solo per il gusto di filmare determinati costumi, trucchi e arredi, che sia un film di decor e parrucco più che uno di trama (confusissima e ridicola, stiracchiata a partire da una storia breve di Neil Gaiman), che voglia mettere in scena un mondo fittizio somigliante ad una carnevalata consapevole e ricercata. Ragazzi punk di Londra che incontrano alieni bigotti e coloratissimi, implausibili e da macchietta, e li fanno uscire dalle loro rigide gabbie, mentre loro gli insegnano nuovi confini del sesso. Una storia d’amore adolescenziale tra lui (terrestre) e lei (aliena) a fare da colonna vertebrale e il più classico personaggio sessofobico che invece si scopre bisessuale tramite i piaceri anali.
Come se Mitchell desse al punk la dimensione queer e alla camp culture la rabbia del punk, le due sottoculture qui si incontrano e si uniscono (culminando nel brano Eat Me Alive cantato da Elle Fanning, un purissimo crossover).
Produttivamente è un sogno e una ricetta da cult, cinematograficamente non è sempre un granchè. Nonostante lo spirito e il desiderio di divertirsi siano innegabili e a loro modo ammirabili, è anche vero che non sempre il film ha la capacità di tenere un tono e un ritmo che li fomentino davvero. Se Mitchell voleva fare una grande festa forse doveva organizzarla meglio.
L’idea che tiene in piedi tutto (a parte la storiella d’amor giovanile tra i protagonisti) è infatti una serie di sovrapposizioni e doppi sensi tra le regole, le leggi e i vocaboli usati dagli alieni e quanto possano corrispondere a stilemi punk. L’uso delle urla, ma anche del vomito ad esempio servono a creare equivoci e doppi livelli di lettura (i ragazzi punk ci vedono una cosa, gli alieni un’altra). Insomma non molto.