Cannes 70: How To Talk To Girls At Parties, la recensione

Eccessiva, carnevalesco e autoironico How To Talk To Girls At Parties è fatto più che altro per filmare certi costumi, certi trucchi e certi atteggiamenti

Critico e giornalista cinematografico


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“Il punk è davvero la cosa migliore che sia mai capitata alle gente brutta” l’impeccabile frase che nelle prime scene di How To Talk To Girls At Parties mette la tag definitiva sull’avventura dei tre protagonisti, dice molto più sul film di quel che se ne trae a prima lettura (o ascolto). Il quarto lungometraggio di John Cameron Mitchell è un film di godimenti e di un’estetica, un gusto e un culto del non bello, molto lontani dalla media accettabile. Nonostante non siamo più in anni in cui tutto questo scandalizzi (proprio perché noi, a differenza dei protagonisti, non viviamo ad inizio anni ‘80) lo stesso pare che il senso sia quello.

How To Talk To Girls At Parties fornisce da subito la chiara impressione di esistere solo per il gusto di filmare determinati costumi, trucchi e arredi, che sia un film di decor e parrucco più che uno di trama (confusissima e ridicola, stiracchiata a partire da una storia breve di Neil Gaiman), che voglia mettere in scena un mondo fittizio somigliante ad una carnevalata consapevole e ricercata. Ragazzi punk di Londra che incontrano alieni bigotti e coloratissimi, implausibili e da macchietta, e li fanno uscire dalle loro rigide gabbie, mentre loro gli insegnano nuovi confini del sesso. Una storia d’amore adolescenziale tra lui (terrestre) e lei (aliena) a fare da colonna vertebrale e il più classico personaggio sessofobico che invece si scopre bisessuale tramite i piaceri anali.
Come se Mitchell desse al punk la dimensione queer e alla camp culture la rabbia del punk, le due sottoculture qui si incontrano e si uniscono (culminando nel brano Eat Me Alive cantato da Elle Fanning, un purissimo crossover).

Produttivamente è un sogno e una ricetta da cult, cinematograficamente non è sempre un granchè. Nonostante lo spirito e il desiderio di divertirsi siano innegabili e a loro modo ammirabili, è anche vero che non sempre il film ha la capacità di tenere un tono e un ritmo che li fomentino davvero. Se Mitchell voleva fare una grande festa forse doveva organizzarla meglio.
L’idea che tiene in piedi tutto (a parte la storiella d’amor giovanile tra i protagonisti) è infatti una serie di sovrapposizioni e doppi sensi tra le regole, le leggi e i vocaboli usati dagli alieni e quanto possano corrispondere a stilemi punk. L’uso delle urla, ma anche del vomito ad esempio servono a creare equivoci e doppi livelli di lettura (i ragazzi punk ci vedono una cosa, gli alieni un’altra). Insomma non molto.

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